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FRANKENWEENIE - RECENSIONE
Frankenweenie recensione
Recensione

Frankenweenie recensione
[Frankenweenie recensione] - "Non mi ha finito" disse Edward. Era il 1990 e il genio cupo e visionario di Tim Burton rinasceva dal silenzio stampa opportunamente sceso sul suo divorzio con casa Disney. Un androide mutilato e ipersensibile salì in cattedra per rivelare al mondo che i padri della Sirenetta e di Biancaneve avevano liquidato troppo in fretta la verve un pò lugubre del ragazzaccio californiano con una buffa zazzera e un gran talento per la sceneggiatura. Dal frasario semplice e toccante di Edward Mani di Forbice e dall'estetica gothic-minimal rimasta incollata al nome di Burton dopo quel suo primo, grande successo, ne sono passate di idee sotto la sua fronte aggrottata. Alcune decisamente felici: leggi i picchi, mai più doppiati, di Nightmare Before Christmas (a cui Burton partecipò da produttore), Ed Wood e Big Fish. Altre, come i recenti, sbavati, Alice in Wonderland e Dark Shadows, buoni solo a testimoniare i rischi della corruzione commerciale. Frankenweenie, promosso nel 2012 a lungometraggio di 87 minuti dopo un avvio in sordina, nel 1984, come live-action di appena 27, arriva come un balsamo a smorzare i bruciori di una reputazione compromessa. E lo fa con un magnifico restyling del Burton prima maniera: l'apprendista stregone, l'alchimista che fonde i desideri con gli incubi, che gioca con le paure ataviche e le trasforma in manichini funerei dagli occhi sgranati. Frankenweenie, un omaggio agli horror della vecchia Hollywood, è la storia d'amore tra un ragazzino strambo e il suo cane Sparky: una simbiosi spezzata dal destino (implacabile, come sempre in Burton) che uccide il cucciolo e lascia il giovane Victor, (auto)citazione del mesto protagonista della Sposa cadavere, più solo che mai. Incalzato dai suggerimenti del professore di scienze (un capolavoro di ambiguità adulta, saggio e terrifico allo stesso tempo), Victor decide di sfidare le leggi di natura e riportare in vita Sparky. Ma l'intersezione con l'altro mondo, lasciata alla mercè di nemici spioni, si rivela una scelta pericolosa. In bianco e nero, con il dondolio mortifero dei personaggi accentuato dalla stop motion e una (ritrovata) sagacità dei dialoghi a condire di umorismo una trama altrimenti straziante, Frankenweenie riappacifica Burton con la sua vena fanta-noir e con il suo pubblico: dopo una pioggia di compromessi scenici, protagonisti scialbi e scivoloni moralistici, di cui aveva abusato nei suoi lavori più recenti, il simpatico Caronte reso celebre dai suoi mostri abbandona le macchiette disneyane e torna a parlare il suo slang cartoonesco, irriverente, uncorrect. Con buona pace degli aficionados, Frankenweenie lacera la cortina patinata scesa sul Burton degli ultimi anni e riporta in vita, come Victor con Sparky, una versione rattoppata, ma per questo più commovente, del regista ousider che fu. Un ottimo (ri)inizio, che lascia presagire una terza età burtoniana ancora prodiga di strani amori e di spaventi. (recensione di Elisa Lorenzini)

Era il 1984 quando Tim Burton propose alla Disney la sua opera Frankenweenie. La Disney all'epoca non apprezzò particolarmente il concept e costrinse il regista a limitare le sue idee e a farne un corto di sei minuti in live-action relegato a essere il mero accompagnamento di uno dei film di meno successo per la produzione di Topolino. Tante cose sono successe in trent'anni e poco alla volta, questo strambo regista ha avuto numerosi riconoscimenti ed è riuscito ad imporre il suo gotico e freak modo di vedere la vita, creando uno stile registico e una vera e propria estetica riconoscibile di primo acchito. Di fatto, con la celebrità, è innegabile che Tim Burton abbia perso il suo tocco, allontanandosi, soprattutto di recente, da quelli che sono i suoi topos: basti pensare a Sweeney Todd, a La fabbrica di Cioccolato, a Alice in Wonderland e all'ultimo e disastroso quanto dimenticabile Dark Shadows. Film dall'indubbio impatto visivo che, a suo modo, Burton ha tentato di mascherare col suo tocco ma che hanno fatto rimpiangere ai veri appassionati cinefili il loro amore per il regista di Burbank. Perché è innegabile che, nonostante le atmosfere da horror-fiaba, i personaggi e le storie uscite dalla testa di quest'uomo sono storie che toccano tutti, che parlano di individui che, per quanto estremizzati entro il loro immaginario, sono persone che vivono drammi esistenziali, che scappano dalla quotidianità cui sono costretti ma con quel tocco di magia trasformano i loro straordinari (e spesso inquietanti) sogni in realtà. Frankenweenie è il tenero racconto di un bambino e del suo cane Sparky. Dopo aver inaspettatamente perso il suo adorato Sparky, il giovane Victor sfrutta il potere della scienza per riportare in vita il suo amico, con qualche lieve variazione. Prova a nascondere la sua creazione ma, quando Sparky esce di casa, i compagni di scuola di Victor, gli insegnanti e l'intera città scoprono che creare una nuova vita può essere mostruoso. Frankenweenie sembra essere un riscatto: la Disney che cede al fascino Burtoniano e finalmente gli dà carta bianca. Per chi scrive, il film sembrava essere, in realtà, il riciclaggio di un'idea a dir poco geniale e appassionante, appartenente a qualcuno che, con la celebrità, ha deciso di trasporre cinematograficamente idee di qualcun'altro. E' sempre un rischio decidere di "allungare" dei corti ma, Frankeweenie, coi suoi 87 minuti, si è dimostrato un film riempito di ottime idee e carico di numerosissime citazioni che non stancano affatto: anzi divertono lo spettatore-appassionato nella ricerca del "già visto" letterario e cinematografico. E Burton, in fondo, cita anche se stesso. Come non farlo: il film inizia con una celebrazione di ciò che ci apprestiamo a vedere e, allo stesso tempo, della magia del cinema che diventa il mezzo tramite il quale un bambino un po' particolare, Victor (che è la chiara sublimazione dell'Io-Burton) decide di parlare di se ma, soprattutto, esprime il suo amore per il suo migliore amico, Sparky. Il bianco e nero rendono particolarmente efficace il desiderio di malinconia, il desiderio di sognare che caratterizza i veri sogni della filmografia del regista. Il 3D è del tutto inutile, mentre la stop-motion richiama tutt'una serie di dettagli particolarmente efficaci. Nonostante l'idea iniziale sia rimasta intatta e, anzi, impreziosita da numerossissimi elementi, tra i quali la bellissima morale (la scienza può poco senza l'amore e, anzi, spesso crea solo danni) il film manca completamente di magia. Siamo ben lungi dai risultati sconvolgenti e straordinariamente belli di Big Fish o di Edward mani di forbice che hanno incantato i cultori del genere ma, chi scrive, vuole sperare che questo sia un nuovo e promettente inizio per Tim Burton. (La recensione del film "Frankenweenie" è di Francesca Casella)
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