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DJANGO UNCHAINED - RECENSIONE
Django Unchained recensione
Recensione

recensione di E. Lorenzini
[Django Unchained recensione] - Tarantino unlimited. In Django, già candidato a cult e adorato honoris causa da tutti i fedelissimi, il regista più irriverente e corrosivo della scena contemporanea ha riassunto tutti gli archetipi del suo non-genere cinematografico: una summa (disordinata ma puntualissima, come vuole un modus operandi benedetto dal successo) della violenza, dell'azione concitata, dello splatter gratuito e abbondante, dell'ironia sagace e della malinconia latente che hanno segnato tutti i film di Tarantino, dal rivelatorio Le iene al più recente Bastardi senza gloria. Il buon vecchio Quentin non cerca strade nuove: procede in un'ascendente, parossistica esasperazione dei suoi canoni visivi e narrativi. Quello che sembra consolidare è la predilezione per una personale riscrittura della Storia: come già in Bastardi senza gloria, dove si divertiva a sovvertire il prototipo dell'ebreo remissivo e incolpevole, brutalizzato dalla furia nazista, in Django il "regista dj" conia un nuovo modello di schiavo afroamericano. Il suo eroe vendicatore, ben interpretato da Jamie Foxx, è un servo assoldato da un cacciatore di taglie tedesco per inseguire una ciurma di criminali sudisti, che, dopo aver imparato l'arte sopraffina della caccia (all'uomo), coinvolge il suo benefattore nella ricerca dell'amata moglie Broomhilda, prigioniera nella proprietà del grottesco Calvin Candie. In barba al clichè dello schiavo placido e ignorante, standardizzato dal cinema buonista della golden age hollywoodiana, Tarantino propone una sua versione rivista e corretta delle gerarchie razziali, rivelando la carica aggressiva e la scaltrezza delle presunte vittime e dignificando, attraverso la violenza, il loro desiderio represso di libertà. Amante dichiarato del western all'italiana e della sua contaminazione con l'exploitation più scatenata, Tarantino realizza in Django una duplice operazione: raffinare lo scardinamento dei luoghi comuni (della Storia come del cinema) e confermare agli occhi del suo pubblico i capisaldi del suo stile. Con un occhio all'ennesimo spaghetti western, il Django del 1966 diretto da Sergio Corbucci e dominato da un memorabile Franco Nero, il ragazzaccio di Knoxville crea un altro poutpourri di miti sconvolti e di dadaismi narrativi, esaltando le doti trasformistiche di tre grandi protagonisti. Se Jamie Foxx merita una lode per la sua perfetta sintesi di fascino e grettezza, la maschera sardonica di Christoph Waltz si conferma ideale per spiegare l'ambiguità degli antieroi tarantiniani. Leonardo Di Caprio aggiunge lustro al trio con una delle prove più brillanti e atipiche del suo repertorio, scegliendo di sacrificare le scorie romantiche del suo passato ultrapop con un ruolo di cattivo vero, un burattinaio sadico e istrionico, forse il personaggio più interessante del film. Se gli applausi, com'è prevedibile, pioveranno, sarà per una prova registica matura e profonda, lontana dalle spericolatezze goliardiche del giovane Tarantino: un film che si unisce idealmente al precedente Bastardi senza gloria e che lascia presagire il coronamento di una trilogia (anti)storica, una perla d'autore che del suo autore ha tutto, la sottigliezza dialogica e l'intercambiabilità delle parti, il citazionismo ammirato e quello distruttivo, il veleno e il romanticismo decadente. Ai non amanti di Tarantino, a chi da sempre arriccia il naso di fronte alla sua spaccatura convinta delle morali e delle strutture, si consiglia la visione di Django per amore della Storia: quella del cinema, di cui fa già parte. (La recensione del film "Django Unchained" è di Elisa Lorenzini)
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