VAI E VIVRAI
 

recensione vai e vivrai

 
Nella lunga epopea dell’aliyah (in ebraico, “ritorno”), le migrazioni degli ebrei di ogni parte del pianeta verso la Terra Promessa, quella degli ebrei etiopi è forse la più straordinaria, nonché la meno conosciuta. Unici israeliti di sangue africano al mondo - e, di converso, gli unici africani di cultura ebraica – i falasha (“straniero”, in lingua amarica) furono perseguitati per secoli dalla maggioranza cristiano-copta. Nel 1984 i falasha, come migliaia di connazionali cristiani, furono costretti da una terribile carestia a migrare verso nord, nei campi-profughi del Sudan. Da qui, grazie a un’azione congiunta di Gerusalemme e Washington chiamata “operazione Mosè”, essi furono trasportati in massa verso la Terra Promessa delle loro leggende con uno spettacolare ponte aereo. Ma i problemi dei falasha erano tutt’altro che finiti:  
 
l’integrazione nella società israeliana, infatti, sarà molto più difficile del previsto. Il quadro storico appena tracciato è indispensabile, per la comprensione di “Vai e Vivrai”, l’ultima eccellente fatica del regista “ebreo francese, di origine romena” (definizione autografa) Radu Mihaileanu, già autore di “Train de Vie” (1998). Raramente, infatti, ci si trova al cospetto di un film così indissolubilmente legato a eventi  
complessi e al tempo stesso poco noti. I meriti di Mihaileanu non si fermano certo all’aver riportato alla luce la vicenda dei falasha. “Vai e vivrai”, infatti, è un’opera completa, in cui le esigenze storico-documentaristiche hanno trovato un equilibrio naturale con la narrativa e con la dimensione intima dei personaggi: e l’anima lacerata del protagonista Shlomo, come in un gioco di specchi, è l’immagine gemella di un’intera nazione. Salomon, bambino etiope-cristiano, è convinto dalla madre a fingersi falasha, per avere così la possibilità di fuggire dalla disperazione del campo-profughi, in direzione Israele. Prima di lasciarlo andare, la madre mormora “vai, vivi, divieni” (“va, vis, deviens”, ovvero il titolo originale del film, il cui corrispettivo italiano non è altrettanto pregnante): tre parole, che corrisponderanno a tre stadi della futura vita di Salomon. Considerato orfano, il bimbo – ribattezzato Shlomo – viene adottato da una famiglia laica di ebrei francesi. È l’inizio di un silenzioso duello tra la costruzione di una nuova identità – Shlomo non è ebreo, né occidentale, e deve imparare a diventarlo - e il mantenimento amorevole delle proprie fragili radici; tra la ricerca di affetti nel suo mondo nuovo (Yael, la mamma adottiva – la bravissima Yael Abecassis - e più tardi la fidanzata Sarah) e l’ostinata memoria della madre carnale, allegoricamente...(segue)
 
 
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