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La
nebbia del Getsemani ricorda
quella dell'esorcista o
quelle di alcuni horror
della Hammer. Un preludio
brumoso al regno delle ombre,
delle tenebre e dei dubbi,
dove tentazioni e demoni
si annidano per difendere
il primato del maje. Le
immagini e la convenzione
figurativa ci ricordano
(è inutile rammentarlo?)
che, con tutto il ri spetto
per la storia raccontata,
per i ruoli interpretati,
per le parole pronunciate,
siamo al cinema. Siamo interpellati
come spettatori a guardare,
a identificarci, ad emozionarci,
ad annoiarci, a riflettere,
a distrarci, chiudere gli
occhi quando le immagini
sono troppo forti, crude,
esplicite. Mel Gibson è
il primo - ortodossia o
non ortodossia, antisemitismo
effettivo o supposto, correttezza
o scorrettezza, atto di
fede o malafede - a sapere,
a ribadire, a insistere,
a portare testimonia |
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za. È il primo a
rendersi conto, con una
messa in scena possente,
che il suo film è
l'ultimo, fino a domani,
remake e nuova versione
della più grande
storia mai raccontata e
che la figura di Gesù
Cristo al cinema è
spesso pretesto di polemiche,
di scandalo, di perplessità,
di divisioni culturali.
In questo caso gli occhi
pesti, le carni martoriate
e straziate, il volto stravolto,
la corona di spine, i chiodi
che spezzano tessuti e ossa,
le parole sante tramandate
nei secoli non trasformano
(e non lo vorrebbero trasformare)
il corpo di un attore in
qualcosa di diverso da quello
che è, e il Verbo
è una cosa troppo
seria da mortificare con
una trasposizione per lo
schermo. Non ci sono miracoli
da compiere: Jim CaviezeI
resta Jim CaviezeI e non
incarna Cristo. Gli presta
una flagranza fisica, manipolata
dal trucco, suppurata, infettata
dai fiotti di sangue di
un gore teologico, condensata
da una millenaria tradizione
iconografica. La
Passione di Cristo
è, senza peccare
di blasfemila, in modo traslato,
"la passione
di Gibson".
La passione di un'idea di
cinema che si confronta
con un'idea di cinema che
si confronta con un mistero
della fede e ne rivela la
forza visiva di un'arma
letale. Le immagini rallentate,
i primissimi piani, l'ostinata
dilatazione temporale, la
persistenza retinica della
tortura e dell'afflizione
riportano ad un'istanza
epica del racconto, al rifiuto
di una convenzionale e diffusa
drammaturgia in tre atti,
di una riscrittura delle
stazioni della Via Crucis;
alla scomposizione percettiva
di un cinema sperimentale,
underground rispetto al
mainstream e ai costi di
Hollywood. Uno spettatore
ignaro della lettera evangelica
sulla "passione"e
sul martirio di Cristo e,
prima ancora, sulla vicenda
terrena del figlio di Dio
(i flashback non sono sufficienti)
stenterebbe a capire che
cosa stia accadendo (un
condannato a morte non può
e non vuole fuggire e accetta
il proprio supplizio in
nome di una legge suprema
e implicita) e non capirebbe
chi sono nella folla, a
parte la figura della madre,
le persone che soffrono
con l'uomo umiliato, percosso,
maltrattato, deriso e infine
crocifisso. Gibson ritiene
irrilevante l'impostazione
classica dei personaggi,
amplifica i loro gesti,
i loro pensieri, le loro
pene, la loro indifferenza
e le loro parole, pronunciate
filologicamente in aramaico.. |
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