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Il
primo piano di un
uomo; in sottofondo,
i rumori del bar di
una stazione. L'uomo
ha la faccia affaticata,
concentrata, ma non
arrabbiata: sta passando
le consegne di un'esperienza
difficile a un altro
uomo, che vediamo
nel controcampo, che
sembra preoccupato,
teso, quasi intimidito.
L'esperienza difficile
si chiama Paolo, ha
quindici anni, è
nato da un parto disgraziato
che ha ucciso sua
madre e segnato il
suo corpo, e in quel
momento sta dormendo
sul treno che deve
portarlo a Berlino,
per una terapia di
riabilitazione in
una clinica specializzata.
I due uomini sono,
rispettivamente, lo
zio che lo ha allevato
e il padre che lo
ha rifiutato dalla
nascita e che ora
si assume il peso
di un viaggio traumatico.
Pierfrancesco Favino
(in pochi minuti che
lo confermano tra
i giovani attori italiani
più interessanti)
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Kim Rossi Stuart (nel
primo ruolo cinematografico
da protagonista che
rende davvero giustizia
alle sue qualità
d'interprete), faccia
a faccia, in uno scambio
di battute carico
di malesseri, sottintesi,
paure, forse anche
di aspettative. La
prima scena di Le
chiavi di casa
di Gianni
Amelio dà
il tono di tutto il
film: un film che
si inanella, si racconta,
senza svelare i suoi
misteri (che sono
quelli dei rapporti
affettivi, delle anime
inquiete, delle improvvise
complicità,
dei rifiuti, degli
sbalzi d'umore, degli
scatti d'ira) ma rendendocene
partecipi; concentrato
sui volti e i gesti
dei personaggi, sulla
loro quotidiana "fatica";
semplificato al massimo
nel linguaggio, pulito
ma non rarefatto,
segnato semmai dalla
pulizia delle emozioni;
rispettoso e complico
dei suoi protagonisti,
dubbioso come loro.
Un film fatto di treni
e di oggettivi spaesamenti
(non solo perché
si svolge tutto a
Berlino e in Norvegia,
ma soprattutto perché
il giovane protagonista
Paolo è necessariamente
spaesato di fronte
alle azioni più
banali e quotidiane),
che, con il suo viaggio
di conoscenza tra
un padre e un figlio,
può di primo
acchito ricordare
"Il ladro
di bambini",
ma che sotto nasconde
anche le amarezze
e le violenze di Così
ridevano,
che forse nasce come
gesto di liberazione
emotiva rispetto alla
nota tragica e oscura
di quel film. Per
la prima volta nel
cinema di Amelio,
un ragazzo riuscirà
forse a salvare l'anima
di un adulto (e questo
è il tratto
che più lo
avvicina a II ladro
di bambini) e a salvarsi
da lui senza essere
costretto a fuggire
(come accadeva al
protagonista del primo
cortometraggio, La
fine del gioco, che
di soppiatto scendeva
dal treno). Per la
prima volta, le forze
affettive in campo
si equilibrano, e
non nel segno della
compassione o della
rinuncia, ma in quello
del bisogno e del
rispetto reciproci.
Per la prima volta
insieme, padre e figlio
attraversano la città
sconosciuta con curiosità
e la clinica minacciosa
con dolore: il padre
è straziato
dallo strazio cui
la riabilitazione
sottopone il corpo
del figlio (in una
delle scene più
"forti"
del film, dove Amelio
riesce a tenersi miracolosamente
lontano dal ricatto
della rappresentazione
del dolore), è
affascinato dall'inesauribile
energia di Paolo,
ma è anche
innervosito, esasperato,
disperatamente |
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