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PULP
FICTION |
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Scopo di
questa rubrica è analizzare i
grandi CAPOLAVORI del
'900 e quindi di IERI. Contestualizzarli
ad OGGI per capire se la prova del TEMPO
li ha resi ETERNI o superati. Verranno
presi in esame solo opere che all'epoca
venivano considerati CAPOLAVORI
per capire, analizzando il contenuto
e la forma, gli aspetti che li hanno
resi tali da essere, circoscritti al
loro TEMPO per ovvi motivi sociali o,
ETERNI anche OGGI e DOMANI. |
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Se
in Amarcord la signora all’uscita
dal cinema dichiarava “Era
tanto bello ho pianto tanto”
(espressione volutamente priva di
punteggiatura atta a troncare un
concetto bensì perfettamente
congiunto), lo spettatore di Pulp
Fiction mira, estasiato, lo schermo,
rapito dall’indefinibile,
eppure assolutamente percettibile,
sensazione di bellezza incondizionata.
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Il dilemma è riscontrabile solamente
nell’imbarazzante scelta dell’elemento
determinante tale luminosa grazia filmica.
Palma d’oro a Cannes, Oscar per
la miglior sceneggiatura originale,
l’opera di Tarantino costituisce
un prodotto artistico di sorprendente
fascino e attrattiva; e solo quando
scorrono i titoli di coda è indispensabile
arrendersi alla coralità magistralmente
elaborata dal regista, geniale tessitore,
in grado di somministrare seduzione
visiva, entusiasmo sonoro, malia dialettica.
La parola, forse più di ogni
altra magia, è l’autentico
artefice di una sì alta considerazione:
sin dalla prima sequenza, attraverso
il dialogo di Pumpkin (Tim Roth) e Honey
Bunny (Amanda Plummer) uno spontaneo
quanto eccitato sorriso nasce sulle
labbra dello spettatore. Che meraviglia!
Il linguaggio come forma di estrinsecazione
spettacolare, veicolo di eccelsa intelligenza
e acutissima originalità; quasi
sempre, anche nei casi in cui siano
presenti più personaggi, è
facile riconosce- |
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re come l’attenzione si
concentri sulla conversazione
tra due figure per volta, spesso
per mezzo dello scambio di pensieri
rapido ed esaltante, teso a mantenere
alto l’interesse del pubblico.
Non mancano i monologhi, ulteriore
prova di immensa capacità
significante: ne sono testimoni,
tanto per citare solo alcuni esempi
a caso tra la miriade architettata
da Tarantino, la declamazione
di Jules Winnfield (Samuel L.
Jackson) del versetto di Ezechiele |
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25/17 “il cammino dell’uomo
timorato” recitata con impeto
omicida in conclusione al soliloquio
rivolto ai giovani ed ingenui spacciatori;
la brutale benché limpida e lineare
spiegazione di Marsellus Wallace al
pugile Butch (Bruce Willis) circa il
programmato esito dell’incontro,
con le altrettanto semplici conseguenze
che deriverebbero da un’eventuale
(non auspicabile) infrazione del patto.
E che dire dell’assurdo ed ingegnoso
colloquio tra Jules e il collega Vincent
Vega (John Travolta) intenti, mostrando
una tranquillità non prevista
dalla situazione, a far scorrere pochi
minuti di attesa prima di entrare in
azione? Pulp Fiction rappresenta, in
un certo senso, il film cult per eccellenza,
concepito all’origine quale modello
stesso con la presenza imponente di
scene ideate a tale scopo; una su tutte
l’overdose di Mia (Uma Thurman)
e le successive peripezie di Vincent
al fine di evitare la definitiva dipartita
della moglie di Marsellus. Il momento
dell’iniezione di adrenalina dritta
al cuore della moribonda è e
resta una messa in opera di rara emozionalità
e riuscita stilistica. O ancora, il
precedente twist interpretato dai due
attori, leggendario già alla
nascita, progettato nell’ottica
della celebrazione. Quentin Tarantino..(continua) |
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