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sulla
superficie, sorta di incisione
funerea strappata all’arte
chirurgica del Dürer; il
viso della ragazza invece si
mostra pieno, limpido, privo
di segni, su cui emergono, netti
e decisi, la bocca fremente
e gli occhi intensi, dai quali
affiorano, di tanto in tanto,
lacrime devote. La scenografia
è ridotta al minimo descrivibile,
spoglia, denu-
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data di qualsiasi connotazione
che vada oltre il semplice
contesto, appena percepita
dalle carrellate e dai voli
pindarici di un Dreyer al
culmine del talento visionario,
ispirazione illuminata per
Bergman ne "Il Settimo
Sigillo" (1956). "La
Passione di Giovanna d’Arco"
è inoltre un’opera
densa di riferimenti simbolici,
ulteriore testimonianza
di un allestimento narrativo
tutt’altro che sbrigativo,
nonostante l’austerità
della messa in scena. Giovanna
scorge sul |
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pavimento
il disegno di una croce, risultato
“casuale” dell’ombra
scaturita dalla finestra, in
seguito annullata dal passaggio
indifferente di un prete; la
tomba scavata allude alla prossima
fine della sventurata, mentre
la mano non concessa da parte
del “misericordioso”
ecclesiastico interpreta l’accanimento
e l’abbandono della Chiesa.
Infine una rapida nota sulla
musica, aggiunta nell’edizione
del 1952. Sembra persino superfluo
discorrere su un elemento di
per sé non valutabile,
in quanto il giudizio, negativo
o positivo che sia, urta impietosamente
contro l’originale volontà
di Dreyer, perplesso sul reale
contributo del sonoro, di non
inserire l’apporto melodico
in un film talmente immenso
ed esauriente dal punto di vista
ottico che non necessita di
alcun genere di intromissione
sensoriale per accrescere la
commozione già compresa
nelle immagini di un capolavoro
senza tempo.
Lo era IERI,
lo è OGGI
e lo sarà
DOMANI.
(di Francesca
Lenzi)
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-
Riepilogo |
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