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LA
PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO |
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Scopo di
questa rubrica è analizzare i
grandi CAPOLAVORI del
'900 e quindi di IERI. Contestualizzarli
ad OGGI per capire se la prova del TEMPO
li ha resi ETERNI o superati. Verranno
presi in esame solo opere che all'epoca
venivano considerati CAPOLAVORI
per capire, analizzando il contenuto
e la forma, gli aspetti che li hanno
resi tali da essere, circoscritti al
loro TEMPO per ovvi motivi sociali o,
ETERNI anche OGGI e DOMANI. |
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“Da
questi atti scopriamo una Giovanna
d’Arco, non con elmo e corazza,
ma semplice e umana, una giovane
donna che morì per il suo
paese… e noi siamo testimoni
d’un dramma impressionante,
una giovane donna credente, messa
a confronto con un consesso di teologi
ottusi e giuristi intransigenti”.
L’interesse per Giovanna d’Arco
inizia a nascere in Carl
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Theodor Dreyer nel 1924 quando avviene
la canonizzazione della martire, tradita
dai Borgognoni e arsa viva nella piazza
del mercato vecchio di Rouen nel 1431.
Il regista si basa sulla trascrizione
verbale redatta durante il processo,
conservata nella biblioteca della Camera
dei deputati di Parigi, per realizzare
la versione senza dubbio migliore della
storia della pulzella d’Orléans.
In effetti l’argomento appare
decisamente sfruttato nel corso degli
anni, con risultati incerti e differenti
interpretazioni, spesso – troppo
spesso – di dubbia qualità;
in questo senso, forse con un’eccessiva
dose di severità, solo Il Processo
di Bresson (1962) si mostra in grado
di reggere il confronto con Dreyer (seppur
in tono minore) dal quale acquisisce
l’insegnamento del rigore formale,
colto dall’asciutto e distaccato
esempio di Ordet (1955). Sospendendo
ogni commento sulle altre trasposizioni,
talvolta contaminate da trascurabili
e febbrili resoconti di combattimenti,
le uniche |
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pellicole, realmente riuscite,
sono quelle di Dreyer e Bresson
che, se da un lato si distinguono
nel considerare l’elemento
centrale della vicenda (l’uno
attento alla parte intima del
soggetto, l’altro all’aspetto
freddo e imparziale delle dinamiche
giudiziarie), concordano nella
scelta di indagare i momenti di
confronto tra Giovanna e il clero,
esibendo le relative conseguenze.
Data la premessa, andiamo all’analisi
della Passione. Dreyer voleva
“cantare il |
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trionfo dell’anima sulla vita”
ed è in questa volontà
che si origina una modalità espressiva
efficace ed innovativa, rifiutando i
principi significativi del cinema espressionista:
contrariamente a Murnau che con "Nosferatu",
solo sei anni prima, produceva la tensione
accordando figure e spazi, e a Wiene,
geniale architetto di quinte drammatiche
e irreali ne "Il Gabinetto del
Dottor Caligari", il regista danese
decide di optare per una prevalenza
di primi piani strettissimi, di frequente
al limite del dettaglio. È il
volto il principale veicolo di emozionalità,
lo strumento attraverso il quale l’emotività
interiore dei personaggi trova ragione
sullo schermo, ambito usato in termini
di intuitiva capacità creativa.
I visi vengono ripresi tramite inquadrature
quasi mai normalmente frontali, ma lateralmente,
con angolazioni ardite e inusuali. I
giudici e Giovanna possiedono un opposto
sguardo: i primi, dall’alto di
una posizione sovrastante, non solo
intesa in senso meramente fisico, offendono
ripetutamente l’espressione piegata,
sottomessa, inferiore della giovane
donna. A tale riguardo sarà interessante
notare come la magnifica fotografia
di Rudolph Maté asseconda perfettamente
le intenzioni registiche, definendo
diversamente i volti del clero e di
Giovanna: la pelle degli accusatori
non registra alcun tipo di trucco, evidenziando
con precisione ogni piega, ruga o difetto...(continua) |
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