ARANCIA MECCANICA  
  Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi CAPOLAVORI del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per capire se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno presi in esame solo opere che all'epoca venivano considerati CAPOLAVORI per capire, analizzando il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere, circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali o, ETERNI anche OGGI e DOMANI.  
 

Sin dalla prima inquadratura, rivelatasi dopo un’alternanza di rosso e blu intensi, sulle quali si stagliano i titoli iniziali, si ha la convinta certezza di trovarsi di fronte a un film insolito, adducendo al vocabolo una connotazione tutt’altro che negativa. Il dettaglio dello sguardo torvo e scintillante di Alex, diluito nel costante, lento, allontanarsi delle macchina

 
  da presa, seduce la vista, catturata dal volto vibrante del giovane, condizionato da un ghigno mordace, un respiro ampio e profondo, tesi a celare malamente un’indubitabile ferocia. “Eccomi là...cioè Alex, e i miei tre drughi...”. Non esistono fraintendimenti, probabili equivoci; il protagonista si presenta, elencando ordinatamente compagni e abitudini notturne, demolendo ogni possibile dubbio latente nel pubblico, libero dall’interrogarsi sull’identità dei personaggi, i propositi che cullano, i concreti disegni realizzati. Immediatamente dopo siamo investiti da un qualsiasi esempio dell’ultraviolenza professata, esternata nell’assalto immotivato e crudele all’anziano clochard, disperatamente scagliato in una denuncia sociale, prima che politica, caduta sonoramente nel vuoto di fronte all’empia incoscienza degli aggressori. Di seguito, la furiosa lotta tra le due bande, e l’irruzione barbara nella villa, espongono una sequela di scellerati abusi che superficialmente possono  
 
indurre alla considerazione di un film violento. Niente di più sbagliato. Arancia Meccanica è un prodotto sovraccarico di violenza, di atti feroci e inumani, necessari al fine di giustificare il reale intento perseguito dal regista. Kubrick crea una riflessione sulla “violenza”, acquisiti gli elementi in gioco, contro la stessa, assolutamente non celebrata o legittimata, bensì analizzata e scomposta nella varietà eterogenea in cui è organizzata. Il  
 
  geniale cineasta non si ferma ad una paternalistica predica, procede oltre la disapprovazione sterile, o la mera descrizione documentaria: conduce lo spettatore a prendere percezione di una componente insita nell’uomo, il cui eventuale conseguimento dipende da una scelta consapevole. Qualora questo fattore venga a mancare, risulterà smarrita la facoltà stessa del libero arbitrio, fondamentale, imprescindibile, attitudine conforme all’essere umano. Una società che non ammette una verità di tal genere non solo rischia di cadere nell’ipocrisia ma anche nel precipizio corrispondente la violenza che tenta di combattere. “La bontà è una scelta. Quando l’uomo non ha scelta cessa di essere uomo [...] Egli cessa di fare il male, ma cessa anche di esercitare il libero arbitrio”, “Padre, questi sono sofismi, a noi non interessano i motivi o le sottigliezze dell’etica. A noi interessa soltanto ridurre la delinquenza”. Un simile posizione è però discutibile per due semplici ragioni: se anche si volesse dimenticare per un attimo il censurabile disinteresse verso i comuni diritti della persona, che non si esauriscono con il reato e la carcerazione dell’individuo, cinicamente non è neppure corretto trasformare il delinquente in vittima predestinata e indifesa, incapace non solo di nuocere, ma anche di attuare un’indispensabile auto-conservazione in presenza di una concreta minaccia. Il detenuto 655321 non diventa cittadino modello, alieno da aspirazioni criminali, dopo un percorso doloroso...(continua)  

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