La recensione del film Waiting for the Barbarians

.       .

Vai ai contenuti

FILM > RECENSIONI

WAITING FOR THE BARBARIANS - RECENSIONE

Waiting for the Barbarians recensione
Recensione

di Rita Ricucci
[Waiting for the Barbarians recensione] - Presentato alla 76 Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, esce in sala il 24 settembre Waiting for the Barbarians. Ciro Guerra porta sul grande schermo il confine tra fare il bene ed essere il male. Tratto dal libro di J.M. Coetzee, premio Nobel per la letteratura 2003 che firma anche la sua prima sceneggiatura, il regista colombiano ripropone lo scenario letterario nella magnificenza hollywoodiana. Siamo nel deserto, uno spazio infinito nel quale una fortezza costruita da mano d'uomo, delimita uno spazio a salvaguardia dell'Impero, un impero lontano e sconosciuto. Non c'è un tempo iscritto in un calendario storico piuttosto il film è scandito in stagioni che presentano i singoli protagonisti nella loro più intima trasformazione nel bene e nel male. Il Magistrato (uno splendido Mark Rylance, premio Oscar miglior attore non protagonista, Il ponte delle spie, Spielberg 2016), questo il nome di colui che presiede il forte, è totalmente in sintonia con la popolazione autoctona. I ritmi del quotidiano sono scanditi dal lavoro, dal gioco dei bambini e dalle piccole disquisizioni giudiziarie che non vanno oltre piccoli dispetti tra vicini di casa e malintesi. Il Magistrato è capace di controllo e mantiene alto il vivere comune e in comune. Il suo hobby è quello di scavare in profondità della terra in cerca di segni, reperti che raccontino la storia di quell'umanità, al confine di ogni mondo civilizzato. L'arrivo del colonnello Joll (l'accattivante Johnny Depp), in Estate, e successivamente del dell'ufficiale Mandel (Robert Pattinson), destabilizza la quiete conquistata. Joll identifica quel luogo come la prima linea per difendere l'impero. Perciò, il caso di due indigeni accusati di furto di bestiame diventa esemplare nelle atroci torture inflitte per estorcere la verità, perché solo con il dolore questa può emergere, dirà. Ciro Guerra ritorna sui temi che gli sono più cari: le conseguenze del colonialismo, la corruzione, in Oro verde-C'era una volta in Colombia, 2018; il diritto di predominio dell'uomo "civilizzato" sull'indigeno in El abrazo de la serpiente, 2015. Ma Waiting for the Barbarians esprime con più solidità il pensiero antropologico che ha unito la regia di Guerra alla sceneggiatura di Coetzee. C'è un luogo che più di ogni potere, religione, evoluzione e modernità, è data ad ogni essere umano di abitare, ed è la propria Umanità. "Barbaro" quindi, non è più il selvaggio che tenta di proteggere la sua terra. "Barbaro" è il nemico insito in ogni uomo, perché, come dice il Magistrato al colonnello Joll, non abbiamo nemici a meno che non siamo noi i nemici di noi stessi. E mentre viene descritto e ribadito il male di cui è capace l'uomo, annientare, umiliare, ferire, uccidere, l'incanto della fotografia di Chris Menges e il montaggio spettacolare di Jacopo Quadri regalano i colori del riposo, la vastità della quiete in paesaggi primordiali. Nella consapevolezza di Ciro Guerra della scelta dei costumi (Carlo Poggioli) si rendono espliciti i caratteri in gioco: i cattivi hanno la divisa nera, il buono ha la divisa logora e lacerata, mentre le divise bianche, linde e ordinate, sono affibbiate a quelli che ancora devono mostrare il coraggio della loro scelta. Il contenuto letterario del Premio Nobel Coetzee e la maestria di Ciro Guerra non esitano a rendere un'assonanza, e di grande pertinenza al messaggio più propriamente cristiano. Il Magistrato come il "buon samaritano" raccoglie da terra il corpo abusato e trafitto di una giovane donna (Gana Bayarsaikhan), torturata, dalle caviglie rotte agli occhi bruciati; ordina alla locandiera Mai (Greta Scacchi) di darle da mangiare mentre lui si piegherà sulle ginocchia per lavarle i piedi e solo lì, in quel gesto essenziale di cura, trova il sollievo del sonno riparatore del male sofferto dalla donna. La fotografia di Chris Menges con i costumi di Carlo Poggioli, accentuano la memoria caravaggesca della luce fioca che illumina tratti del volto del Magistrato, dagli occhi al sudore della fronte, lasciando il buio sull'ambiente. Gli esterni, invece sono lasciati alla somiglianza dei dipinti di Bruegel nelle distese di sabbia dorata, di dune sinuose, della folla all'interno della fortezza. Infine l'umiliazione del Magistrato, unico uomo giusto, lo chiama Joll, come il Giusto, il Crocifisso, passa tra la folla agghindato con abiti da donna per essere deriso e lapidato come accade per La tunica (H. Koster 1953) del Nazareno. Waiting for the Barbarians non risparmia nessuno: interroga ciascuno come anche la storia stessa, se si è capaci di riconoscersi barbaro, nel proprio odio verso lo straniero, il diverso, prima di chiamare questo barbaro per giustificarne la sopraffazione. (La recensione del film "Waiting for the Barbarians" è di Rita Ricucci)
- Vai all'archivio delle recensioni
- Lascia un commento, la critica o la tua recensione del film "Waiting for the Barbarians":




Torna ai contenuti | Torna al menu