di F. Cantore
[
Viviane recensione] - Per quanto diffusa (fratelli Coen, Dardenne, Taviani, finanche Lumière), la pratica di girare un film in famiglia resta un fenomeno sempre affascinante, ancor più se a collaborare sono due fratelli di sesso diverso, Ronit e Shlomi Elkabetz, e se la donna è anche protagonista del film. Così accade in Viviane, capitolo conclusivo di una trilogia lunga dieci anni che documenta la vita di due sposi israeliani fino al dramma del divorzio. Se da un punto di vista concettuale l'operazione messa in atto dagli Elkabetz trova rispondenza nella filosofia sottesa a molti film di Richard Linklater (la trilogia Before Sunrise/Sunset/Midnight che copre un arco di tempo di diciotto anni, ma anche il recente Boyhood), dal lato prettamente tematico, Viviane costituisce un atto di protesta contro una società in cui, ancora nel 2014, solo l'uomo può concedere il divorzio, la donna non può toccarsi i capelli o vestirsi di rosso senza essere accusata di voler suscitare appetiti sessuali e in cui, per non tirarla per le lunghe, un marito che non picchia la moglie è già una grossa concessione al genere femminile. Tutto quello che Viviane chiede al tribunale e al consorte, è la restituzione della sua libertà: l'attesa, protratta per cinque lunghi anni a causa del diniego del marito, è una prigionia che le impedisce di rifarsi una vita, come accade a ogni donna israeliana che non abbia ottenuto il divorzio. L'abilità dei due fratelli è quella di passare dalla disperazione alla comicità, senza per questo creare una rottura nel mood della storia. La verità è che c'è qualcosa che rasenta il ridicolo nel diritto di famiglia israeliano, partendo dall'obsolescenza di una legge mai emendata, per arrivare a quella sorta di coreografia che caratterizza la concessione del divorzio: la donna letteralmente riceve l'atto nelle sue mani congiunte e parallele al pavimento, lo porta sotto l'ascella, si dirige fino alla porta e poi torna indietro. E ancora più comica è la pignoleria con cui i giudici rabbinici correggono i movimenti. Meno abili gli Elkabetz a mantenere costante il ritmo nella parte centrale del film, in cui il susseguirsi di troppi testimoni chiamati in causa (alcuni stupendamente caratterizzati, altri meno) sottrae pregnanza alla vicenda e allenta la tensione. Due regole di base vengono rispettate nel corso della pellicola. La prima e più evidente è l'unicità della location: il tribunale rabbinico in cui si svolge la causa di divorzio. È una specificità che richiama alla mente capolavori di lunga memoria e non solo, si pensi a tanti film di Polanski, da Il coltello nell'acqua, a Carnage, fino a Venere in pelliccia, ma anche al più recente 12 Citizens di Xu Ang, presentato in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma 2014 (e uscito vittorioso), vicino a Viviane anche per l'argomento giuridico. La seconda regola riguarda il piano filmico e la scelta delle inquadrature: i personaggi sono sempre inquadrati dal punto di vista di un altro personaggio, allo scopo di analizzare i fatti in modo oggettivo, come in ogni tribunale che si rispetti, e dunque senza indurre un'interpretazione legata a scelte di regia. Secondo i registi, il primo elemento ad attirare l'attenzione in un'inquadratura è lo sguardo del personaggio, subito dopo lo spettatore ricerca l'oggetto di quello sguardo. Ebbene, in Viviane quasi sempre l'oggetto dello sguardo dell'attore o dell'attrice coincide con il nostro punto di vista, in un susseguirsi di soggettive e semisoggettive. Fa eccezione la scena finale in cui la macchina da presa segue i piedi della protagonista che finalmente va a riprendersi la sua libertà.
(La recensione del film "
Viviane" è di
Francesca Cantore)
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