Viale del tramonto di Billy Wilder

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IERI OGGI E...

VIALE DEL TRAMONTO di Billy Wilder

Viale del tramonto Recensione

di Antonello Océ
Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi film del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per comprendere se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno prese in considerazione solo opere che all'epoca vennero reputate CAPOLAVORI per sviscerare, analizzandone il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali, o ETERNI, anche OGGI e DOMANI.

Viale del tramonto è un lungometraggio girato da Billy Wilder nel 1950 che va visto per almeno due motivi: è il film sul cinema per antonomasia; è un insuperabile trattato di grammatica della regia e della sceneggiatura. Basterebbero queste due credenziali a spiegare la sua presenza nella rubrica. Ma c'è di più. L'opera di Wilder è un prisma variopinto e assoluto che racconta del tempo e della memoria, dell'amore e dell'identità, dell'arte e dell'inganno delle illusioni. La voce di un morto ci introduce dall'oltretomba nella trama del film - come faranno nei decenni a venire American Beauty e Amabili resti - e nella vita di Joe, sceneggiatore disincantato e in bolletta, che fugge dai suoi creditori e si imbatte per puro caso nella villa decadente di un ex-diva del cinema muto, Norma Desmond. Norma vive isolata nella sua villa-bunker in compagnia della sola presenza del fido maggiordomo Max, trascorrendo le sue giornate nel ricordo dei tempi gloriosi in cui macinava contratti e ispirava intere generazioni di fan. Malgrado l'atmosfera macabra e stantia, Joe intravede in Norma un'alternativa alla sua indigenza e decide di aiutarla a riconquistare le luci della ribalta. E' così che Joe precipita in una spirale morbosa di follia e ossessioni che lo condurranno verso il fatale epilogo in cui scontare la colpa della sua cupidigia e delle sue menzogne. Quand'è che una storia diventa eterna? Viale del tramonto non è soltanto il titolo di un film epocale ma è anche un diffuso modo di dire, la pellicola ha infatti dato vita a un'espressione del linguaggio comune che basta da sola a certificare la sua statura leggendaria. Del resto sono tanti e indiscutibili i punti di forza del settimo lungometraggio del regista polacco trapiantato a Hollywood: una storia vibrante e una progressione crescente, una magistrale padronanza di ritmo, tempi e tensione, una scrittura adamantina, insieme cinica e matura, un carosello di splendide interpretazioni tra loro intrecciate in un arazzo pregiato di dialoghi e coreografie, una raffica di sequenze memorabili (il carrello dell'incipit, il balletto alla Chaplin, il finale celeberrimo, la visita agli studios con tanto di schiaffo al microfono e metafora dei riflettori che pilotano l'attenzione della gente), i risvolti psicoanalitici latenti, l'intreccio morboso tra Eros e Tanathos e, su tutto, il cortocircuito vertiginoso tra filmico e pro-filmico, tra la storia del film e la Storia dietro ad esso, tra i personaggi e i loro interpreti. Nei panni di Norma Desmond troviamo infatti un'autentica veterana del cinema anni venti, Gloria Swanson, il maggiordomo Max altri non è che Erich Von Stroheim, noto regista off-Hollywood da tempo sparito dai radar, nella scena in cui Gloria-Norma mostra a Joe un suo vecchio lavoro proietta Queen Kelly, un film del '28 da lei recitato e girato dallo stesso Von Stroeheim, Buster Keaton che gioca a carte e fa letteralmente scena muta, Cecil De Mille impegnato nelle riprese di un vero film del 1949 - Sansone e Dalila - e via di questo passo. In questa follia autoriflessiva VDL ha un ruolo fondamentale nella storia del cinema, altri film in precedenza avevano usato Hollywood come tema e ambientazione ma nessuno aveva mai osato un tale azzardo arrivando ad un sintesi perfetta tra un racconto orizzontale sul cinema e un sistema verticale di riferimenti, che abbatte la quarta parete e riflette sugli effetti dell'industria mentre li traduce in linguaggio. E scritturando a tale scopo i medesimi soggetti, è questo il non plus-ultra, personalità che nello stesso tempo sono corpi e figure, stelle e spettri, personaggi ed esseri umani in carne ed ossa. In questo studio antropologico sulla macchina dei sogni VDL è stato capostipite, dando il via a tutto un filone di opere audiovisive incentrate sul mondo dietro un film e la compenetrazione tra piani informativi - penso non solo ad Effetto Notte di Truffaut o Lo stato delle cose di Wenders, ma anche alla confusione tra spettacolo e vita di Fellini e Lynch o alle più recenti e semplicistiche incursioni nel metacinema di Birdman, Get Shorty o Ave Cesare -. Tornando dentro il film, e non sopra o sotto, cioè che più colpisce è il totale e assoluto controllo di mezzi, soluzioni e figure, l'ordine quasi maniacale con cui Wilder vigila e orchestra l'intrinseca tendenza al caos dell'intreccio. Un equilibrio compositivo che ha davvero pochi eguali nel suo genere, ogni aspetto è animato dalla cifra autoriale e seducente dello stile ma non della posa, di uno sguardo ispirato dal galateo ma non dalla maniera. I tempi non sono mai fuori posto, un ruolo mai disancorato dal contesto, i dialoghi mai superflui, i personaggi non vanno incontro alla trama ma tutto l'opposto, le parti di Norma, Joe e Max sono talmente ben scritte che sembrano vivere di vita propria. Certo la figura di Norma rasenta a più riprese l'archetipo - più vicina a un angelo caduto che a una moderna Didone - ma ad avercene di così sfumati e complessi. Perché Viale del tramonto è un film sull'anima. O meglio, sul tormentato e indissolubile rapporto tra corpo, mente e anima. Body, mind and soul. Il corpo decade, la mente non lo accetta, l'anima soffre. Tutti soffrono per Norma che a sua volta soffre. Soffre Max, incatenato a doppio filo alla sua amata musa, soffre Joe Gillis, accecato prima dall'opulenza sfarzosa della sua Didone e in seguito dalla sua fame di riscossa, e soffriamo noi spettatori, sedotti da questa figura di sopravvissuta e portati ad empatizzare con la sua fragile psiche malgrado l'ego orgoglioso e teatrale. Perché ogni anima se messa a nudo rivela un viavai di psicosi e conflitti, ogni ego rivela un subconscio, e Billy Wilder ne è ben consapevole componendo con VDL un velenoso e tagliente saggio sulle contraddizioni umane. Ogni tema, motivo o figura della messa in scena, depone a favore di questa causa. Ogni guizzo dentro il racconto punta a scrostare la superficie delle cose è scandagliare ciò che c'è sotto. L'ambientazione imbevuta di atmosfera crepuscolare della villa mette a nudo la cruda verità che si nasconde dietro lo sfarzo patinato di Hollywood, la realtà dietro la finzione, le miserie dietro gli splendori. Il percorso di Joe, benché smorzato dai toni disincantati del sarcasmo, racconta la rinuncia all'innocenza - Nancy Olson - in favore della depravazione - Norma e il suo corredo funebre di scimmie morte, suicidi mancati e porte senza maniglie -. La casa diroccata assume le vesti di un teatro psichico in cui tutti fanno autoanalisi ed emerge il loro rimosso. I richiami psicanalitici costellano l'intera struttura narrativa non configurandosi mai come formule retoriche ma sempre come sottotesto simbolico - la pulsione incestuosa, i rapporti disturbati, gli esempi di trauma benefico -. La premiata ditta Wilder e Brackett punta senza fronzoli a mettere a nudo l'anima e sparare a zero su quello che rimane. Un'anima che spogliata dall'eco della ribalta, dai fasci di luce dei riflettori, dalla polvere di stelle, resta sola e in balia del senso di vuoto, rivelando personalità incapaci di essere ma solo di apparire, corpi che emettono luce ma non calore, stelle che al calare della notte si trasformano in spettri. Imbevuto della satira disperata del suo tono brillante e iconoclasta, del Cinema che gioca a fare il Cinema, l'occhio spietato di Wilder architetta un mirabile marchingegno autoriale in cui un racconto di cronaca nera non descrive l'inevitabile crepuscolo di ogni percorso di successo perché qui, la voce dei morti, segna l'ora zero dello Spectalum sgargiante del tutto straordinario e del tutto è mito. Se la storia del cinema fosse una città, Sunset Boulevard sarebbe il suo Colosseo, un monumento alla grandezza del tempo che è stato, un lascito culturale per le generazioni a venire che nessuna forza è cosi duratura come la consistenza di un sogno. E nessuna tragedia è così disperata come la sua inesorabile fine. Lo era ieri, lo è oggi e lo sarà domani.


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