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Un mondo fragile recensione] - Un mondo fragile (Caméra d'or miglior opera prima al Festival di Cannes 2015) è una Storia che nasce dall' esigenza di ricordare qualcosa di privato, Cesar Acevedo torna alle origini della sua terra e lo fa ricostruendo con cura quasi documentaristica un microcosmo domestico, non il suo, ma quello di una famiglia in cui sarebbe potuto crescere.
Non ci sono spazi per flashback, voci fuori campo o diversivi narrativi.
Pochi gesti semplici. Mani che appena si sfiorano, una tavola apparecchiata per 3 e non per 5, sguardi sospesi tra rimorso e rimpianto bastano a raccontare la storia di Alfonso e dei suoi cari. Un contadino che dopo quasi 20 anni dall'abbandono del suo nucleo vi fa ritorno nelle condizioni più difficili.
Tutto è all'inverso di come dovrebbe essere. Un padre che si prende cura del figlio in fin di vita che non vedrà il suo diventare grande, due donne che mentre i mariti sono costretti a casa si sottopongono ai lavori degradanti delle piantagioni, e una finestra che non deve mai restare aperta perché l'aria è nemica, è cattiva. Ma c'è un'altra finestra che rimane spalancata quella sulla realtà dello sfruttamento industriale delle coltivazioni da canne da zucchero, un netto controluce di quel mondo fragile di terra e ombra, intensamente descritto da piani sequenza e lunghe inquadrature.
I dialoghi sono asciutti, la colonna sonora inesistente, c'è il rimbombo di stanze vuote, il suono impercettibile della cenere dei campi che inesorabile, fiocco a fiocco, rende l'aria della Colombia irrespirabile. La minaccia del progresso tecnologico e il conseguente inquinamento ambientale costringerebbero alla migrazione, ma per il mondo contadino sradicarsi dalla prioria terra non è possibile. Perché restare per loro vuol dire sacrifico, resistere, ma soprattutto vivere.
Una prova attoriale notevole e una fotografia già paragonata alle immagini penetranti di Sebastiao Salgado potenziano questo rigoroso ritratto della popolazione rurale e del suo attaccamento alle origini.
La denuncia sociale trova spazio, arriva forte e diretta, all'interno di una estetica sempre composta. Tutto è calibrato attraverso la macchina di Cesar Acevedo, persino il dolore e le sofferenze vanno contenute. L'eccessivo rigore rischia però di non colmare una distanza che (seppur breve) c'è tra i personaggi e lo spettatore, che quasi come di fronte a quadro perfetto non può fare altro che ammirarlo ma senza entrare a farvi parte.
(La recensione del film "
Un mondo fragile" è di
Clara Gipponi)
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