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Un fantastico via vai recensione] - Lo schema è ben noto: lui, maschio italico con un nome altisonante, dall'aspetto passabile e affetto dalla sindrome di Peter Pan, si "evolve" per amore di una donna sempre diversa da film a film ma comunque avvenente e dalle forme generose poiché "sotto la quarta non può essere vero amore", mentre un carnevale umano di personaggi strambi aggiunge quel tocco di surreale nonsense a delle altrimenti scontate analisi dei rapporti uomo – donna. Nonostante l'uso reiterato di idee e stilemi, i puntuali incassi vertiginosi raggiunti a ogni biennio natalizio suggeriscono che il pubblico sembri comunque apprezzare: per questa ragione, dopo il gradevole esordio nel 1995 con "I laureati" e l'exploit dell'anno successivo con "Il ciclone", Leonardo Pieraccioni ha capito che non occorre applicarsi più di tanto e sviluppa ogni suo film attorno al personaggio del "bischero" (ipse dixit), con contorno di bellona più allegra combriccola di amici corregionali che gli fanno da spalla. E che si avvalga della collaborazione del fidato Giovanni Veronesi per la stesura dello script o che opti per il nuovo talento della commedia all'italiana Paolo Genovese, che ha contattato per scrivere la sua ultima fatica, poco cambia: il regista e attore fiorentino sembra comunque che assesti i suoi personaggi sui medesimi piani narrativi, in una formula di equivoci ed echi grotteschi che si arrocca su una toscanità che non ha niente di Monicelli ma neanche di Benigni o Virzì.
Questa volta Pieraccioni presta anima (film dopo film invariabilmente puerile) e corpo (ahimè più tozzo e affaticato dal trascorrere degli anni) al bancario Arnaldo di "Un fantastico via vai", marito e padre "sufficientemente sereno" che, grazie al pretesto offerto da un banale equivoco, viene sbattuto fuori di casa dalla moglie che non ne può più della personalità scolorita del consorte e si ritrova a dividere un tetto con degli studenti universitari, due ragazzi e due ragazze. Gli avvenenti giovani scelti da Leonardo, che sembrano più dei "ragazzi copertina" che dei semplici studenti, con i loro dialetti variegati, (Pieraccioni, da nord a sud, ha accontentato un po' tutti assemblando una romana, una catanese, un perugino e un bolognese in quel di Arezzo, aggiungendoci pure il cameriere napoletano nella gag che riprende la corsa de "I laureati"), il loro fardello di problemi più o meno complicati ma anche con la freschezza tipica della giovinezza, donano un nuovo slancio all'abitudinaria esistenza di Arnaldo, che da tranquillo pater familias s'improvvisa fratello maggiore prodigo di consigli. E quale migliore occasione per dare una svolta a una routine un po' piatta su cui grava il peso di vecchi rimpianti se non quella offerta dal quartetto allo sbaraglio, che servirà su un piatto d'argento ad Arnaldo/Leonardo svariate dinamiche conflittuali scaturenti da multiformi interazioni che vedono ai poli opposti suoceri xenofobi, padri assenti, gravidanze segrete e amori inconfessati, e dove trovano spazio persino emofobie in laureandi in medicina e insolite attrazioni verso acerbi oggetti d'amore provenienti dalle scuole medie da parte di chi frequenta l'università. Incomunicabilità, paura dell'intimità e delle complicanze legate alla crescita. Tutto fa brodo nel calderone delle soluzioni narrative in picchiata libera verso l'inevitabile aplomb finale, con la rieducazione delle coscienze, i ricongiungimenti tra coppie e nuclei parentali all'insegna del "… e vissero tutti felici e contenti" e personaggi che, dopo essere stati in balia di raffiche di vento e mare mosso, afferrano (letteralmente) il "timone" per navigare con una ritrovata sicurezza nelle acque dell'esistenza (le suggestioni metereologiche non sono del tutto arbitrarie, ma derivano dalla "metafora della caravella" che aleggia sull'intero film e che viene addirittura rappresentata sia nel prologo sia nell'epilogo, a mo' di narrazione circolare). Non bastano i simpatici contributi offerti da comprimari del calibro di Massimo Ceccherini e Giorgio Panariello o dall'inedita quanto riuscita doppietta formata da Maurizio Battista e Marco Marzocca per rinvigorire un film debole; così come non basta neanche l'incursione nel mondo dei "gggiovani", trasfigurati in maschere di superficialità e banalità che i registi nostrani, fatte le dovute eccezioni come il sopracitato Virzì, sembrano non saper ritrarre né con il piglio intimista e sensibile di taluni cineasti d'Oltralpe né in chiave ironica e dissacrante come avviene in diverse pellicole indipendenti statunitensi. E tanto per riprendere le nostre suggestioni atmosferiche, ancora niente di nuovo sotto il sole.
(La recensione del film "
Un fantastico via vai" è di
Simona Lombardi)
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