di R. Gaudiano
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Un divano a Tunisi recensione] - Dopo la primavera araba, la giovane psicanalista, Selma Derwich (Golshifteh Farahani), che vive a Parigi con il padre, decide di tornare nel suo paese, la Tunisia. Selma è carica di entusiasmo e poco percepisce il disorientamento culturale della sua gente, non pronta a comprendere bene la funzione di quel benedetto lettino per la psicanalisi, dove da sdraiati si aprono alla verità sulle loro esistenze. Selma è a suo agio con la propria androginia e ignora i codici della femminilità nordafricana. Rifiuta l'idea del matrimonio e della famiglia, canalizzando le sue energie nel lavoro, soddisfatta di essere single all'alba dei quarant'anni. Donna solitaria che coltiva la solitudine. Nonostante questo limite Selma ha la fila fuori la porta del suo rudimentale studio. Non avendo ancora la regolare licenza per poter professare, Selma deve, però, fare i conti con il capo della polizia locale, bel giovane poliziotto ma troppo burocratico, che spesso le mette i bastoni fra le ruote. Ma la giovane scapigliata Selma non si arrende e persevera nel suo progetto, che ad un certo punto del cammino appare quasi impossibile. Diretto da Manèle Labidi, "Un divano a Tunisi" trascrive in commedia una realtà culturale locale tunisina che Selma crede di cambiare attraverso le sue sedute di psicanalisi. Sul divano, che Selma colloca in un piccolo locale sul tetto di un palazzo, le persone si avvicendano e senza accorgersene, spinte da un bisogno soffocato, mettono a nudo le loro problematiche. La proprietaria di un salone di bellezza, dall'aspetto molto discutibile, un imam che non crede più nel suo dio, un paranoico che fa sogni pericolosi, Olfa, ragazza adolescente, che vuole fuggire alla volta della Tour Eiffel, sono alcuni degli esilaranti soggetti che si avvicendano sul famoso lettino. Cosa c'è di più vero e immediato di una seduta di psicanalisi per aprirsi e raccontare le proprie debolezze, le paure, le proprie possibili sognate aspettative. Manèle Labidi mette così in scena una cultura a confronto, scegliendo la commedia per dar voce a malinconie esistenziali di una società imbrigliata in dettami religiosi e chiusure ataviche. Freud troneggia in una grande foto devotamente attaccata sul muro da Selma. Il maestro della psicanalisi, che insegue la sua allieva in sogni rivelatori e l'aiuta a scrollarsi di dosso fantasmi che trattengono una sua possibile serenità. "Un divano a Tunisi" giocando su inserti documentaristi di una società in cambiamento, traccia le possibili linee di un paese in divenire su una nuova costruzione sociale ed economica, passando in primis sulla rivisitazione valoriale di comportamenti ed atteggiamenti che strutturano il sé individuale. Alla fine Selma, nella sua lotta tenace contro l'immobilismo culturale, raggiunge lo scopo di lavorare sulle coscienze della sua gente senza restrizioni di legge e di poter gestire ogni sorta di cambiamento. Il volto schietto e radioso di Golshifteh Farahani, iraniana, ma ritenuta scomoda reazionaria di cause sociali dal suo paese natale, pur contrapponendosi alla situazione difficile di una società locale, sulle note della famosa canzone interpretata da Mina, "Città vuota", riesce a mediare la forza della speranza del possibile cambiamento, che è stata la vera ragione per la quale Selma è tornata tra la sua gente. Il film è vincitore del Premio del Pubblico alla mostra del Cinema di Venezia 2019.
(La recensione del film "
Un divano a Tunisi" è di
Rosalinda Gaudiano)
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