di A. Bizzotto
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Tutti i soldi del mondo recensione] - Una reale vicenda da brivido, quella del rapimento del giovane Paul Getty III, nipote di Paul Getty I, magnate del petrolio nonché uomo più ricco del mondo (secondo il film). Tutti i soldi del mondo la rilegge passando attraverso il romanzo Painfully Rich, con cui John Pearson aveva già raccontato la vicenda che scosse la famiglia Getty nel 1973.
Un mix fra realtà e fiction non sempre lucido, quello che Ridley Scott ha diretto sulla sceneggiatura di David Scarpa. Forse perché i due transfer cui la storia originale è sottoposta, sulla carta stampata e poi sullo schermo, gettano sul risultato una luce che inevitabilmente deforma il racconto di partenza. La sensazione sorge anche in chi, fino a ieri, poco conosceva le dinamiche del fattaccio di cronaca.
Paul Getty III fu rapito a Roma nel mese di luglio e rilasciato sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria circa cinque mesi dopo. La richiesta per il rilascio era il pagamento di diciassette milioni di dollari. Pochi, però, calcolavano l'inflessibile rifiuto di nonno Getty: per mesi infatti il magnate rifiutò qualsiasi pagamento. Non poteva, disse, mettere in pericolo i suoi numerosi nipoti incoraggiando altri rapimenti.
È proprio la reticenza del nonno, insieme al suo scontro a distanza con la madre divorziata del ragazzo rapito che chiede un pagamento rapido, uno degli aspetti che a Scott più interessa mettere a fuoco.
Lo scontro tra due modi di vedere la tragedia familiare e di guardare agli affetti resta valido, almeno in parte. Anche perché supportato dalle fortissime prove di Christopher Plummer e di Michelle Williams.
Tutti i soldi del mondo, però, finisce per annegare in una rappresentazione del suo stesso contesto sovraeccitata, vagamente isterica. La violenza e il crescere della tensione sono tratteggiati con mano pesante, qua e là inaspettatamente grossolana: il film scade, nel suo evolversi, arenandosi nelle secche di un'asprezza cui manca non solo gusto estetico, ma anche equilibrio narrativo. Soprattutto, ma non solo, nella rappresentazione di un'Italia cartolinesca, zeppa di stereotipi, in cui tutto viene vissuto sopra le righe o con superficialità.
Alcuni elementi permettono di riconoscere la mano con cui Scott diresse Hannibal più di quindici anni fa: soprattutto i luoghi comuni su quell'Italia fatta di delinquenti, corrotti e poliziotti poco capaci, condita dall'uso quasi grottesco della musica classica come veicolo di ansie che presagiscono sventura.
Scott consegna alle sale un'opera poco organica, vagamente esaltata al punto da rendere difficile rintracciare indizi di verità che generino reale adesione alla storia. Anche perché il reale interesse della produzione, in sede di lancio, sembra essere stato quello di scongiurare un boicottaggio mediatico e di pubblico dovuto all'originaria presenza in cast di Kevin Spacey, una delle prime e più colpite vittime del Weinstein-gate, accusato di sgradite avances da diversi attori di teatro incoraggiati dallo scoperchiarsi del vaso di pandora delle molestie a Hollywood. Era Spacey in origine, coperto dal cerone e dal make-up, a incarnare Getty I. Una sostituzione avvenuta in corsa, quella che ha chiamato Plummer a rimpiazzarlo grazie a un'aggiunta di dieci milioni di dollari al budget e a un ritmo forsennato di riprese aggiuntive per cui – miracolosamente – tutti gli interpreti sono stati disponibili.
A epurazione avvenuta, espulso il germe dello scandalo, il film è riuscito a uscire in tempo per la corsa agli Oscar 2018.
(La recensione del film "
Tutti i soldi del mondo" è di
Alessandro Bizzotto)
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