TOTO', PEPPINO E LA MALAFEMMINA
di Camillo Mastrocinque
di Francesca Lenzi
Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi CAPOLAVORI del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per capire se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno presi in esame solo opere che all'epoca venivano considerati CAPOLAVORI per capire, analizzando il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere, circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali o, ETERNI anche OGGI e DOMANI.
Una lettera per la signora Lucia: " Vostro figlio invece di studiare si perde con donne di malaffare. Un'amica." Il messaggio anonimo, recapitato a Borgata Tre Pini, infrange il consueto e serenamente rumoroso contesto della vita dei fratelli Caponi, possessori di una discreta tenuta in località Colizzi. Il giovane menzionato nella missiva è Gianni, studente all'ultimo anno di medicina a Napoli, orgoglio di mamma Lucia e degli zii Peppino e Antonio. La donna di malaffare trattasi di Marisa Florian, ballerina e cantante di teatro, conosciuta una sera dal ragazzo e scoperta mentre usciva furtiva di casa dalla figlia degli ospiti, una tredicenne strabica e invidiosa... l'amica della lettera, per intendersi. Il film di Mastrocinque è un capolavoro di comicità, senz'altro per merito degli attori e decisamente in minor grado per le qualità del regista, comunque abile nel sostenere lo straordinario concerto di interpretazioni, lasciando libertà di azione e d'inventiva ai due principali artisti. La storia, tutto sommato semplice e persino banale diviene nelle mani di Totò e Peppino De Filippo uno splendore di arguzia e di equivocità, restando sospesa, nel corso della narrazione, tra l'umorismo intelligente e il continuo fraintendimento, elementi strettamente dipendenti nel risultato. Antonio determina il ruolo che solitamente impersona il Principe De Curtis, quello per cui i napoletani avrebbero una definizione verbale decisamente calzante, impossibile però da riproporre sulla pagina scritta; ironico, ingannatore, petulante, esageratamente insistente nella propria insopportabile provocazione, si diverte nel raggirare senza ritegno, facendo un uso smodato e vantaggioso della parola, sfruttata, cambiata, traslata, capovolta, sino a infondere nella vittima di turno uno sconforto e una resa incondizionata. Peppino rappresenta la preda preferita, facile da irretire e confondere, soprattutto riguardo alle questioni finanziarie; provvisto pure della frase di rito "ho detto tutto" è il personaggio inquadrato nella parte dell'oculato possidente, attento a non sborsare un centesimo in più del dovuto e, se riesce, anche di meno. Non solo, Antonio, consapevole del ferreo nascondiglio monetario del fratello, ha creato un ulteriore, personale, ingresso per accedervi (ovviamente senza la diretta conoscenza e l'eventuale, sicuramente negato, consenso), ma risulta addirittura capace nel convincere il parsimonioso Peppino delle irrazionali, palesemente contraddittorie, spiegazioni che gli fornisce in ambito economico: l'interpretazione dell'inflazione, pena la conseguente perdita di valore del denaro ha il sapore della beffa svelata, eppure dotata di una certa, innegabile, logica (dell'assurdo, naturalmente). In mezzo alle ricche invenzioni comiche, ve ne sono tre che costituiscono il crisma del film e che rispondono all'esigenza di ogni buona pellicola di genere pertinente alla commedia, al fine di acquisire quel surplus di genialità tale da fregiarla dell'eccellenza. Innanzitutto la scena della stesura della lettera alla malafemmina: "Signorina veniamo noi con questa mia a dirvi (una parola) che scusate se sono poche settecentomila lire, ma... SalutandoVi indistintamente, i fratelli Caponi (che siamo noi)". Intromissioni ripetute, ambiguità dialettiche, errori grammaticali, discordanze periodiche, eccessi di generosità nell'interpunzione (punto e punto e virgola!), e via dicendo, tendono a realizzare il punto massimo di umorismo, coincidente con la perfezione interpretativa, tanto più pregevole e sorprendente in quanto originatasi dall'improvvisazione e dall'abilità individuale degli attori. In seguito il dialogo surreale con il vigile, confuso per militare austriaco, in uno scambio di opinioni alternato tra il milanese e il perfetto idioma franco/germanico maccheronico caotico e disorganico: "Noi vogliamo sapere per andare, dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare. È una semplice informazione". All'unicità e alla forza espressiva delle precedenti sequenze, si contrappone un'altra trovata narrativa, opposta nella modalità formale: la scena replicata in modo pressoché identico per tutto il racconto del motivo cantato a squarciagola sul carretto, preceduto dal sasso tirato verso la finestra del nemico Mezzacapa ("É confinante. Tutti i confinanti sono antipatici e odiosi", sentenzia Antonio). L'idea viene riproposta più volte, cambiata impercettibilmente nei personaggi che accompagnano gli inamovibili fratelli, quando non soli sulla quinta: il nipote, il piccolo Gianni. L'espediente è adeguato esattamente alle intenzioni, e ha rappresentato un esempio di ispirazione, un suggerimento creativo adattabile, nello struttura base a qualsiasi altro intreccio romanzesco. "Totò, Peppino... e la malafemmina" mostra un effettivo modello di comicità intelligente, giocata attorno alla potenza della parola, corpo umano in grado di mutare, provocare, produrre emozioni e suggestionare gli eventi, secondo la logica di un'ironia brillante senza scadere nel volgare, una burla smagliante senza apparire ridicola; in definitiva, una dimostrazione di commedia perspicace e divertente, rara e insolita, che ne stabiliscono, ancora oggi, l'autenticità del capolavoro. Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI.