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Taxi Teheran recensione] - Le vicende private di Jafar Panahi vanno di pari passo con la sua carriera di regista. Da sempre strenuo oppositore del regime iraniano, viene arrestato nel 2010 e interdetto per vent'anni dalla realizzazione di film e sceneggiature. Considerato un intellettuale scomodo, nel 2011 dà vita a This is not a film, ambientato interamente nel suo appartamento. Nel 2013 Closed Curtain, realizzato clandestinamente, ottiene l'Orso d'argento per la sceneggiatura. Taxi Teheran è il primo film girato in esterni dal 2010: l'espediente è quello di circoscrivere le riprese all'interno di un taxi, eludendo in questo modo i divieti della censura. Panahi si trasforma per un giorno in autista, ospitando nella sua vettura pittoreschi esemplari della fauna teheraniana che esprimono la loro opinione più o meno naïf su argomenti che passano dalla disuguaglianza tra i sessi nel mondo islamico a una vera e propria dissertazione sulle regole imposte ai cineasti dal governo iraniano. Si tratta di attori non professionisti che per evitare ripercussioni decidono di restare anonimi. L'operazione messa in atto dal regista di Teheran se da un lato veicola un messaggio politico di rivendicazione della libertà di espressione, dall'altro, con un meccanismo non meno interessante, suscita una riflessione sulla pluralità dei punti di vista e sul confronto intermediale fra dispositivi tecnici differenti. C'è innanzitutto una telecamera fissa al centro del cruscotto, occhio principale ma parziale che in base alle esigenze di scena ruota su se stessa, inquadrando di volta in volta il guidatore, il passeggero o l'esterno dell'auto. C'è poi la fotocamera di uno smartphone che serve a registrare il testamento di un passeggero del taxi "in fin di vita". C'è infine una piccola fotocamera digitale che appartiene alla nipotina di Panahi, in procinto di girare delle immagini per la scuola. Questo terzo sguardo diventa attivo solo quando lo zio (referente dello sguardo principale) esce dall'auto, come se la videocamera principale demandasse a un sostituto momentaneo il suo sguardo. E infatti nella scena finale, l'unica in cui l'auto (leggi la macchina da presa; leggi lo sguardo spettatoriale), viene abbandonata dai suoi passeggeri, si verifica un evento che determina la distruzione e la cessazione di quello sguardo che non ha più ragione di esistere in assenza di un soggetto. Questa sovrabbondanza di mezzi tecnici, attraverso la moltiplicazione dei punti di vista e la messa in abisso degli stessi, si fa testimone della volontà di esprimersi con qualunque mezzo a disposizione pur nella limitatezza dei 10 metri quadri che compongono l'abitacolo della vettura. Ciononostante Taxi Teheran non ingenera in chi guarda un senso di claustrofobica chiusura. In realtà è un film completamente aperto verso l'esterno, verso una città amata e odiata al tempo stesso, ma più di tutto verso la possibilità di un cambiamento.
(La recensione del film "
Taxi Teheran" è di
Francesca Cantore)
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