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Synecdoche New York recensione] - Sei anni dopo l'uscita ufficiale, anche gli italiani avranno infine l'onore di prendere parte a quel bellissimo spettacolo che è Synecdoche, New York, orchestrato con maestria dal genio visionario di Charlie Kaufman. Alla sua opera prima come regista, arcinoto per le innumerevoli collaborazioni con Michel Gondry e Spike Jonze (sue le sceneggiature di Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Being John Malkovich, fra tutti), Kaufman dimostra, ancora una volta, quanto i panni dello sceneggiatore gli stiano stretti.
Phillip Seymour Hoffman veste i panni di Caden Conrad, un regista teatrale di professione, sposato con un'artista di successo, egoista e spietata (interpretata da Catherine Keener, odiosa più ancora che in Essere John Malkovich), che lo abbandona partendo con la figlia per una mostra berlinese cui prende parte e dalla quale non farà più ritorno. I giochi di parole e i processi di comunicazione sono alla base dei lavori di Kaufman: in questo vortice di figure retoriche e di assonanze, avvertibili già nel titolo (per cui Synecdoche rimanda a Schenectady, cittadina dello stato di New York in cui si svolge la vicenda), il cognome della moglie di Caden è Lack, che sta per mancanza, come Cotard sta per Sindrome di Cotard o Sindrome del cadavere che cammina. Caden morto che cammina ci si sente sul serio, tra rubinetti esplosi, sicosi al viso (non psicosi, come ci tiene a specificare alla figlia Olive, quando gli chiede cosa siano quelle pustole), tremori e dolori. Il dramma della morte, dell'abbandono e della malattia gravitano minacciose sui personaggi per tutta la durata della pellicola. Kaufman insiste moltissimo sulla corporeità del personaggio: lo vediamo trasmigrare continuamente da uno specialista all'altro, senza capire bene da cosa sia affetto. Forse è solo ipocondria, ma noi, con lui, patiamo l'incombenza di una possibile e quanto mai imminente malattia. Invece l'irrimediabile non accadrà mai e Caden, paradossalmente sopravvivrà a parenti, amici e conoscenti e si spegnerà solo all'accendersi delle luci in sala. Synecdoche, New York ha i tratti onirici e cervellotici dei precedenti prodotti kaufmaniani, ma anche di alcuni lavori autonomi di Gondry, come L'arte del sogno (La Science des rêves, 2006). Il mondo diegetico di Synecdoche non ci viene presentato come "altro" rispetto al nostro e di esso non ci è chiesto di accettarne le convenzioni, pur nonostante certi elementi appartengono nettamente alla dimensione fantastica. A prima vista siamo in un regime di realtà in piena regola, inaspettatamente però sono inserite delle note stonate, dei piccoli indizi, come una serie di lapsus che smentiscono la realtà che conosciamo e che ci convincono di essere finiti nella tana del coniglio di Alice o nel cunicolo che porta nella testa di John Malkovich. Per cui il tempo comincia a perdere valore, le settimane diventano anni e, come nei sogni in cui non si riesce a compiere un'azione, bloccati tra il desiderio e la paura, Caden posticipa il debutto dello spettacolo che sta preparando da diciassette anni. Vittima di una dipendenza che lo porta a ricreare la sua vita in un meccanismo infinito di scatole cinesi per cui un attore interpreta un attore che interpreta un personaggio appartenuto, anche solo di passaggio, al suo passato, è preda del desiderio impossibile di fissare, riproducendola, tutta la propria vita in un solo spettacolo. Avevamo già assistito a un simile meccanismo nel 2002, con Il ladro di orchidee, diretto da Jonze, in cui Kaufman metteva in scena se stesso (e il suo fantomatico fratello gemello) alle prese con l'adattamento per il cinema del romanzo "Il ladro di orchidee".
Synecdoche, New York è un dramma, è la tragedia dell'umanità tutta, ma è anche infinitamente divertente, con quelle situazioni ai limiti del paradosso in cui volentieri sfocia. A riportare tutto su un livello di serietà la consapevolezza del destino che di qui a qualche anno attende Phillip Seymour Hoffman.
(La recensione del film "
Synecdoche New York" è di
Francesca Cantore)
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