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Salvo recensione] - Il film "Salvo" è il pregevole e già celebrato esordio dietro la macchina da presa (doppio premio alla Semaine de la Critique della 66a Ed. del Festival di Cannes) degli sceneggiatori palermitani Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Un'opera prima pregna di merito, coraggio e tenacia, cui l'industria cinematografica italiana guarda con estremo ritardo, se si considera la lunga e travagliata pianificazione progettuale del film. In fondo la storia racconta del risveglio da una cecità metaforica, ma saldamente organizzata, ben oltre quella fisica da cui Rita,la protagonista, è affetta sin dalla nascita. Il risveglio e la fuga dall'universo sistemico criminale, da una non-vita che trasuda morte, alla vita che esala amore, fosse anche per l'estemporaneità dell'ultimo respiro. La dialettica più evidente, che oppone l'ottenebramento morale di Salvo, killer di professione e latitante (il cui sguardo non può che muoversi necessariamente sotto la copertura dell'oscurità e del mirino della propria pistola) con l'infermità fisica di Rita, non per questo meno reattiva e immersa nel ruolo di "donna d'onore" (si occupa, pur nell'isolamento delle mura di casa, degli incassi di chissà quali traffici) si sviluppa ulteriormente nella loro speculare e viziosa immobilità esistenziale. La breve parentesi che prepotentemente e reciprocamente ripristina in loro la percezione sensibile dei sentimenti di salvezza, fiducia, coraggio e libertà, altro non è che un percorso di redenzione consapevolmente votato sin dall'inizio al fallimento, che dalla morte porta alla morte, ma solo dopo aver vissuto, paradossalmente prima della morte stessa, la più autentica quiete.
Il loro destino è nella clandestinità e nel passaggio da una via di fuga all'altra, senza poter giungere mai ad un definitivo porto sicuro, senza poter primariamente neppure mai salpare da nessun porto (reale o immaginario). Salvo si nasconde nel tugurio di una lavanderia, perennemente braccato da chi lo insegue e Rita, ora che ha riacquistato la vista, non potrà che usarla per continuare a guardarsi le spalle da chi la voleva morta sin dal principio. Eppure è proprio in quella clandestinità forzata che si nasconde la premonizione della resurrezione contestuale al martirio (Rita,reclusa in un magazzino, che in un primo momento si ribella alla protezione di Salvo, mostra in un enfatico primissimo piano, le inequivocabili ferite sulle mani, procuratasi contro i muri e contro i vetri). Nel nascondiglio per antonomasia, il bunker, dove avviene l'incontro tra Salvo e il boss cui è affiliato,quest'ultimo, lamentando lo squallore in cui si è condannato a vivere, intima al suo picciotto renitente di condividere con lui il pranzo, quale ultimo sintomo visibile e tangibile della vita che langue: "I morti digiunano, i vivi mangiano!". La frase e il gesto di un boccone ingurgitato a stento, sottolineano la dimensione mortifera di Salvo, uno zombi che rifiuta quel simulacro di vita, che ogni giorno allestiscono per lui, nel rito quotidiano di apparecchiare una tavola appartata, i due coniugi Puleo, sorveglianti omertosi che presiedono al suo nascondiglio. La sua penitenza muta può divenire però ora codice di vita, ora che un miracolo pare si sia compiuto sotto le sue mani, contrapponendosi al suo impenetrabile automatismo assassino. Salvo torna da Rita, e pur non abdicando al suo ineludibile silenzio, le dichiara apertamente la sua richiesta di aiuto, amore e perdono. Proprio mentre i suoi antagonisti reclamano a gran voce fuori dalla porta il duello finale, Salvo e Rita si serrano e barricano dentro le mura del deposito dismesso e come se si incontrassero per la prima volta (Rita scopre solo ora il nome del suo carceriere: Salvo Mancuso) insieme improvvisano una tavola accuratamente imbandita col cibo che Salvo ha acquistato, per quella prima e ultima cena. Gli spari di pistola, il sangue, la separazione e la morte, possono temporaneamente consumarsi nel fuori campo senza più ledere i loro tempi lenti. I loro tempi vivi. Il film esplicitamente colpisce per l'arguta gestione del sintagma cinematografico del campo/fuori campo raccordato sulle fonti sonore diegetiche e sulla commistione dei generi (la critica ne ha già ravvisati tanti:melodramma, noir francese, gangster americano, black comedy, spaghetti western, echi di cinematografia orientale) Così che scavando a fondo è possibile ricondurre probabilmente il più grande debito stilistico e ideologico, piuttosto ad un sui generis, al capolavoro intramontabile di Francesco Rosi, "Salvatore Giuliano" (omonimo e plausibile predecessore di fatto) che per primo irruppe sul grande schermo gettando uno sguardo realista sull'universo mafioso non solo Siciliano, e sovvertendo, pur se in modo strutturalmente diverso, gli schemi di genere tradizionali, non a caso e soprattutto relegando volontariamente nel fuori campo costante la figura e l'azione fisica del bandito, per portare invece in primo piano il vissuto degli abitanti di Montelepre, succubi e abbagliati dal mito del fuorilegge, ciechi e muti dinanzi alle rappresaglie dei militari. Piazza e Grassadonia, sembrano recuperare persino la lezione di Carlo Levi, di cui lo stesso Rosi realizzò la trasposizione cinematografica, quel "Cristo si è fermato ad Eboli", in cui domina la convinzione che nel profondo Sud, fuori dal tempo e volutamente abbandonato dalle istituzioni al dispotismo criminale, si vivano le prepotenze della piccola e grande storia alla pari delle calamità naturali incontrovertibili, non in attesa, bensì in compagnia della morte. Tutto questo è già concentrato nella sequenza iniziale di "Salvo", in cui uno speaker radiofonico accompagna lo spietato agguato tra bande, sancendo come "il caldo torrido metta a dura prova i nervi dei siciliani"; infierisca ulteriormente e in senso atavico, sui sensi e la ragione. I registi sperimentano certo, e non evitano neppure di piegare l'uso di un lampante stereotipo ai propri scopi autoriali. Affidare all'attore Mario Pupella (interprete noto proprio per i suoi ruoli da "Capo dei capi") il personaggio del gelido boss mafioso contro cui si ribellano Salvo e Rita, richiama alla mente titoli del cinema italiano recente, in cui Pupella interpreta appunto la medesima maschera e che affronta il tema della convivenza/opposizione di amore e morte nell'universo codificato mafioso. "Angela – Da una storia vera" di Roberta Torre (con cui "Salvo" ha più di una connotazione comune, sia narrativa che stilistica, tra cui proprio la trasfigurazione e la dissociazione sinestetica) e "La siciliana ribelle" di Marco Amenta, ispirato alla storia reale della collaboratrice di giustizia, Rita Atria, che nella finzione cinematografica, coincidenza o meno, assume il nome di Rita Mancuso.
Storie di donne e uomini che sfidano l'oppressione del sistema malavitoso, trovando la forza nell'illusione dello slancio sentimentale, tesi verso la libertà, pur tuttavia rassegnati ad una sorta di contagio virale perpetuo. E proprio le parole che suggellano l'epilogo della storia di Rita Mancuso, "Forse un mondo onesto non esisterà mai. Ma chi ci impedisce di sognare!", rimandano direttamente all'inquadratura finale di "Salvo", in cui i giovani protagonisti, scegliendo la morte all'impossibilità della fuga, seduti su delle sdraio, rivolgono le spalle in camera e fissano uno squarcio di cielo e di mare.
(La recensione del film "
Salvo" è di
Carmen Albergo)
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