La recensione del film Ritorno in Borgogna

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RITORNO IN BORGOGNA - RECENSIONE

Ritorno in Borgogna recensione
Recensione

di A. Bizzotto
[Ritorno in Borgogna recensione] - La vita scandita dal susseguirsi delle stagioni, le radici delle viti che diventano chiara metafora di quelle familiari. Partendo da bellissimi titoli di testa, Cédric Klapisch dirige una commedia familiare attraversata da note amaricanti e acidule. Più o meno come un vino d'annata. Il vino è il business di famiglia da sempre per i tre fratelli Jean (Pio Marmaï), Juliette (Ana Girardot) e Jérémie (François Civil), nati e cresciuti nella tenuta del padre in Borgogna. Ma a Jean, il maggiore, l'autorità paterna è sempre stata stretta: per questo ha fatto armi e bagagli ed è partito per un giro del mondo. Lasciando agli altri due l'onere di fare i conti con la famiglia e le responsabilità della tenuta. È la grave malattia del padre a riportarlo a casa, fra i vigneti della Borgogna. I fratelli non si vedono da dieci anni e non si sentono da quasi cinque, quando la madre è mancata. Rancori e chiarimenti lasciano inevitabilmente il posto alla necessità di decidere insieme. Come mandare avanti la tenuta, quando vendemmiare, in che modo organizzare le centinaia di attività necessarie. E, alla morte del padre, come gestire l'eredità. Ma al business si intrecciano i sentimenti e i problemi personali. Jean ha lasciano in Australia una compagna arrabbiata e un bimbo. Juliette è single. Jérémie è sposato e ha un figlio, e vive una soffocante vicinanza domestica con l'ingombrante suocero, grande imprenditore dell'enologia regionale. Come far pace con il passato e come progettare il futuro? Klapisch indulge a un sentimentalismo nascosto nell'intrecciare i fili delle vite di tre fratelli uniti dal sangue oltre che da Aligoté e Chardonnay (non è un caso che il titolo originale sia Ce Qui Nous Lie, ossia "Quello che ci lega"). Ma divisi dalle scelte individuali. Dramma e ironia generano un insolito gusto agrodolce, che in più punti fatica a mescersi in modo fluido e uniforme. Tant'è che, a più riprese, a Ritorno in Borgogna resta il sapore di un'opera riuscita solo in parte, superficiale, vagamente stereotipata. Senza contare che il ritmo narrativo spesso non scoppietta, ma rallenta e – in un paio di passaggi – pare arenarsi. Per questo Klapisch fatica a far sollevare la pellicola dagli standard di un prodotto semplicemente grazioso, vagamente godibile, che spesso ha un sapore annacquato. Restano veri e credibili i ritratti dei tre protagonisti: Jean come moderno figliol prodigo, ribelle pentito; Juliette come cocca di famiglia che ha paura degli errori; Jérémie come il piccolo di casa che è cresciuto (forse) troppo presto. Poco contano, del resto, le figure di contorno: un vicino disonesto, mogli e congiunti, collaboratori più o meno stabili. Al di fuori del rapporto fra i tre fratelli (e l'eredità paterna) resta ben poco. Il parallelismo fra la terra e i suoi frutti e il tessuto familiare, così, funziona. La costruzione del racconto e il suo sviluppo narrativo, invece, finiscono per fare acqua, riuscendo solo a metà. (La recensione del film "Ritorno in Borgogna" è di Alessandro Bizzotto)
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