RISO AMARO di Giuseppe De Santis
di Nicole Jallin
Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi film del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per comprendere se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno prese in considerazione solo opere che all'epoca vennero reputate CAPOLAVORI per sviscerare, analizzandone il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali, o ETERNI, anche OGGI e DOMANI.
La presentazione al 3° Festival di Cannes nel settembre 1949 di Riso Amaro ha provocato un interessante reazione della critica, soprattutto di sinistra, che useremo in questa sede come punto di partenza per la nostra analisi. Partiamo dalla fine dunque. Partiamo dalla critica. E partiamo proprio dalle polemiche nate intorno sia alle scelte estetiche, stilistiche e narrative di De Santis, sia alla figura, al corpo e all'interpretazione degli attori (professionisti e non) e soprattutto dell'esordiente Silvana Mangano.
Ma procediamo con ordine. Alcune critiche negative etichettano come non veritiere e deludenti le immagini che riproducono sullo schermo quelle "pianure del riso". Il motivo è semplice: il pubblico vercellese (che appartiene a quel territorio) sa come e in che modo si vive, e sa che quella rappresentazione filmica non solo risulti essere molto lontana dalla realtà, ma addirittura non sia per nulla veritiera. Ne consegue una forte contrapposizione tra film-finzione e realtà-verità, tra vita vissuta e narrazione, tra personaggi e attori, tra mondine e dive. Ciò che vediamo proiettato è un mondo fatto di ambienti e personaggi filtrati dalla fotografia, dall'effetto artistico, da particolari movimenti di macchina, da angolazioni prestabilite e dall'illuminazione. Insomma quel mondo non sarebbe "vero" proprio a causa di tutti gli inprescindibili elementi profilmici che caratterizzano il linguaggio cinematografico.
Rileggiamo a tal proposito alcune righe dell'articolo uscito su L'Unità nell'ottobre 1949: «(…) le gambe e i seni di Silvana Mangano. (…) Le nostre mondine sono solite mostrarle con tale sfrontatezza invece di lavorare duramente e onestamente? (…) dietro le forme di Miss Roma si agitavano dunque due problemi grossi: quello del realismo e quello della funzione sociale e didascalica dell'arte». Lo stesso Francesco Leone, dirigente del PCI, commenta:«Io non so quello che nella testa di De Santis voleva essere Riso amaro. So che tutti coloro che hanno visto da vicino le mondine e il mondo della risaia si domanderanno cosa centra quella storia della collana trapiantata fra le nostre trapiantine».
Dunque da un lato troviamo al centro del dibattito le gambe e i seni della Mangano mostrati sempre in modo arrogante sia dall'attrice che dalla regia, mettendo così in ombra il tema della lotta di classe e del socialismo. Dall'altro vi è una reazione negativa rispetto alla complicata scelta ideologica e alla troppo macchinosa sceneggiatura del film. De Santis dà vita a personaggi incapaci di comprendere la propria condizione e (soprattutto) incapaci di lottare accanto ai propri compagni perché deviati da un'aspirazione di vita fittizia che li condanna all'(auto)annientamento.
In contrapposizione a questi pensieri troviamo invece Ugo Casiraghi, importante storico del cinema, che considera il film positivamente per quanto riguarda la dimensione corale e la direzione delle scene di massa. Il critico però, nonostante definisca il film "spettacolare e avvincente" e riconosca in esso una certa corrispondenza tra realtà e rappresentazione, ne sottolinea alcuni limiti, ovvero: «la mancanza di naturalezza, la ricerca del sensazionale e l'erotismo fine a se stesso».
Riproporre queste opinioni ci permette di comprendere non solo l'eterogenea atmosfera che caratterizzava la critica neorealista, ma anche e soprattutto la complessità del film che ancora oggi necessita di un profondo lavoro di analisi affichè si possano cogliere appieno tutte le sfumature.
Partiamo allora prendendo in considerazione lo stesso contesto nel quale nasce Riso amaro e intorno al quale "costruisce" se stesso e la propria storia: il Neorealismo.
Potremmo definire il Neorealismo come il movimento culturale che intendeva riconquistare il pubblico popolare attraverso un melodramma costruito intorno al corpo femminile e alla sua bellezza. E Giuseppe De Santis fa di questa concezione l'elemento fondamentale del suo film scegliendo il viso (ma soprattutto il corpo) di Silvana Mangano per esaltare e avvicinare i modelli iconografici del realismo socialista - all'insegna dell'eccesso e della dismisura - ai canoni del cinema hollywoodiano. La regia con il suo sguardo attento e indagatore, i movimenti e le sue angolazioni della macchina da presa fa di Riso amaro il luogo in cui l'ambiente e il corpo (femminile) sfumano l'uno nelle altre dando vita a relazioni equilibrate e delicate.
Riso amaro è una pellicola complessa che rischia molto spesso di contraddirsi con se stessa sia sul piano narrativo-diegetico, sia sul piano della messa in scena. Approfondiamo questo aspetto prendendo in esame tre questioni che hanno evidenziato l'essenza ambigua del film già durante le riprese, costringendo gli autori a variare la sceneggiatura in corso d'opera.
È ormai un luogo comune associare Riso amaro a Silvana Mangano. D'altronde la debuttante Mangano diventa prima diva italiana del dopoguerra grazie al successo del film così come la popolarità della pellicola deve molto proprio alla presenza della giovane Miss Roma. Si tratta di un'unione vincente che gli stessi autori hanno voluto sfruttare fin da subito, donando al personaggio di Silvana sfumature drammatiche e tragiche associandole alla fisicità straordinaria ed allo sguardo profondo ed ambiguo della Mangano. De Santis usa abilmente questa presenza femminile nel rapporto natura-corpo umano e cinema-corpo, creando un'armonia tra il fisico femminile e la macchina da presa mai vista nel cinema italiano di fine anni Quaranta. Il regista capisce subito che la Mangano va fatta muovere e l'inquadratura deve essere al suo servizio (proprio come accade per una star hollywoodiana) perché se ne possa ammirare tutta la sua bellezza e sensualità.
Il corpo della protagonista diventa sullo schermo una figura complessa e solida come la terra ma allo stesso tempo imprendibile come l'acqua in cui si muove. I movimenti di macchina la seguono testimoniando la sua provenienza, la sua natura e la sua essenza, esaltandone allo stesso tempo le forme e il calore delle movenze. Un corpo a metà strada tra la contadina italiana figlia della sua terra e le pin-up, le provocanti vamp o le reginette dell'avanspettacolo. Silvana non è abbastanza "finta" o di plastica per essere completamente pin-up e reginetta dei fotoromanzi, troppo radicata nella materialità, nel paesaggio e nel lavoro per essere una vamp. Racchiude in se generosità, solidarietà, amicizia, ma sa essere anche rivale e ladra, è una donna che seduce ed è sedotta, colpevole e innocente, traditrice e tradita.
Ecco la complessità di Silvana Melega, una figura che contiene una vera e propria contaminazione di modelli che definisce l'originalità del paesaggio italiano, determinato dal fattore umano, sociale e culturale.
Il rapporto tra natura e corpo riguarda – lo accennavamo qualche riga fa - anche il luogo, la terra, il territorio che la circonda il corpo femminile delle mondariso. Questo implica un lavoro preciso di messa in scena delle tradizioni contadine che legano delle risaie alle mondariso. De Santis svolge questo compito tendendo presente lo schema tipico del suo cinema: partendo da un singolo individuo e dalla sua condizione, si arriva all'analisi di gruppi e situazioni sempre più vasti. È necessario quindi conoscere in primo luogo il paesaggio del nord Italia e studiare in quale ambiente vivono le persone di quella zona. Successivamente bisogna esaminare nel particolare la figura della donna e della mondina, il suo stile di vita e il suo lavoro. Insomma si tratta, come afferma Lizzani, di una «vera e propria comunione spirituale tra De Santis ed il mondo contadino».
Dalla "comunione" del regista col mondo contadino e i suoi abitanti nasce l'esigenza di "modellare" i singoli personaggi in modo da renderli testimoni della fatica della monda e della precarietà del lavoro. Attraverso la storia drammatica e fittizia di alcuni personaggi principali (Silvana e Francesca innanzitutto, ma anche Walter e il sergente Galli) il film vuole raccontare la realtà di un gruppo e di una categoria di persone appartenente a un determinato contesto storico-sociale.
Ma se il film (si) dichiara attraverso la narrazione, raccontando cioè una storia drammatica e tragica costruita ad hoc, perché Riso amaro continua a essere uno dei manifesti del Neorealismo? Innanzitutto per la presenza contadina che è proposta sin dall'inizio come protagonista assoluta e dominante. In secondo luogo è proprio intorno a questi personaggi (come accade in quasi tutti i film neorealisti del decennio 1943-1953) che nasce l'impulso del riscatto, o il tentativo di riscatto, derivante dal rifiuto della condizione sociale e famigliare messo in crisi dalla guerra. La rappresentazione filmica della lotta del bene contro il male, tra sfruttatori e sfruttati, deriva dall'analisi del binomio individualismo-degradazione in rapporto alla nuova situazione etico-sociale che stava nascendo in quegli anni in Italia.
L'ambiguità di Riso amaro non è solo "interna" al film, relativa cioè al piano narrativo e stilistico ma va al di là delle immagini e persino dello schermo coinvolgendo direttamente lo spettatore. Quest'ultimo infatti si trova costantemente «sulla linea di confine del credibile e del poco credibile». Le parole del regista indicano la possibilità (e la scelta) di aderire o meno a quello che vede proiettato sullo schermo. Una richiesta fatta allo spettatore (attraverso gli sguardi in macchina, le voci over, le voci off, ecc.) di credere o non credere al coinvolgimento delle immagini.
Questo è il realismo di De Santis. Ed è per questo che egli si allontana dal modello strettamente "documentaristico" (tipico dei film neorealisti) per avvicinarsi (quasi dichiaratamente) alla finzione. «L'arte - aggiunge De Santis - non è la riproduzione di semplici documenti». Non è sufficiente la semplice presenza della macchina da presa posizionata di fronte alla realtà perché vi sia arte. Sono necessari la finzione e i mezzi "classicamente cinematografici" perché si giunga ad un realismo vero. L'intento di De Santis e degli altri sceneggiatori (Carlo Lizzani e Gianni Puccini, a cui si aggiungeranno Ivo Perilli e Corrado Alvaro) era di creare una grande racconto popolare che fosse verosimile e realista, che fosse cinema ad ogni pagina.
Questo è Riso amaro. Cinema ad ogni pagina. Cinema fin dalla prima pagina, fin dall'inizio. Dal momento in cui vediamo il primo piano di un uomo che guardando in macchina inizia a parlare del territorio, del periodo della monda del riso, del lavoro delle mondine. Il tono fortemente recitativo con cui l'uomo pronuncia alcune parole stride con l'atmosfera documentaristica e il realismo del paesaggio rappresentato. Il personaggio sposta lo sguardo in fuori campo dando l'impressione che sia presente in quella stazione ferroviaria e stia guardando ciò che sta descrivendo. Ma questa cronaca "emotiva e partecipata" crolla quando uno zoom all'indietro svela un microfono. Quell'uomo è uno speaker radiofonico! Allora perché tanta espressività mimica se per radio nessuno lo vede? Improvvisamente, quasi si fosse accorto di essere stato "scoperto", lo speaker non solo rivela la sua identità («qui parla Radio Torino…») con un tono e un atteggiamento molto meno poetico e molto più distaccato, ma rivela anche di trovarsi davvero nel luogo di cui e da cui parla.
Credere o non credere ai nostri occhi. L'atmosfera documentaristica si trasforma in una situazione spettacolare e ricostituita dell'evento che avvisa il pubblico: quello che state per vedere è una rappresentazione cinematografica. Realtà e finzione cinematografica si confondono. A voi la scelta di abbandonarvi o meno alle immagini. L'iniziale sguardo in macchina dello speaker, il valore enunciativo dato alla parola e alla voce e la volontà di renderle autonome dai fatti narrati rappresentano dei tratti tipici del cinema di De Santis, e l'incipit di Riso amaro lo dimostra chiaramente.
Come già detto, questo è il realismo di De Santis. Realismo inteso come sinonimo di "cambiamento" della realtà e ribadito più volte nel corso del film attraverso la confusione tra il reale mondo delle risaie e i fotoromanzi, i gangster americani, le ombre stile noir, il jazz e il chewing gum. Ecco perché già nei primi minuti possiamo vedere in mezzo alla folla di mondine i due uomini e Gassman vestiti da detective, con tanto di cappello storto e sigaretta, in perfetto stile Humphrey Bogart, che danno all'aria un profumo di film noir e di gangster movie statunitense. Ed ecco che la struttura narrativa (e meta-narrativa) del film unisce la dimensione strettamente realistica con le convenzioni proprie del cinema.
Il binomio realtà-finzione non viene rappresentato solo attraverso le immagini ma anche attraverso le musiche e i canti popolari che le accompagnano nel loro movimento. L'ambiguità di Riso amaro si vede e si sente. E quelli che sentiamo sono autentici canti popolari della prima guerra mondiale che se da un lato definiscono l'ambiente contadino, dall'altro "accompagnano" il lavoro delle mondariso, diventando un sostegno alle loro azioni scandendone addirittura il ritmo e alleviando, per quanto possibile, la fatica.
Allo stesso modo le musiche (principalmente il jazz e il boogie-woogie) non sono semplici sottofondi sonori ma rappresentanti di quel desiderio di fuga verso l'America che appartiene a Silvana e Walter e (soprattutto) a molti italiani nel dopoguerra.
Dunque i canti popolari e le musiche diegetiche hanno un'importante funzione di riportare ad un livello più "documentaristico" la storia del film. Tuttavia, se prendiamo in esame la scena della monda (quella che potremmo considerare come la "giornata tipo" di lavoro delle mondine), ci accorgiamo del duplice valore di questi elementi sonori.
La macchina da presa scivola a pochi centimetri dall'acqua senza disturbare le lavoratrici e stringe sulle rapide mani delle donne che trapiantano le piantine di riso. Silvana sale sul carro per aiutare le sue compagne regolari a raggiungere le clandestine. Quella che fa è una vera e propria sfilata sul carro. E questa marcia viene (non a caso) accompagnata proprio da un canto che la Mangano intona per avvertire della presenza delle clandestine nel campo: «non si parla sul lavoro, se hai qualcosa da dire, dilla cantando!» dice una delle donne. Il canto diventa così strumento narrativo che delinea non solo i personaggi e le loro caratteristiche ma anche l'intreccio della storia da cui dipendono le azioni, le relazioni e i conflitti degli stessi. In questo caso infatti il contrasto le due figure femminili principali diventa un duello a tutti gli effetti scandito da colpi di versi in rima.
Considerare i canti in chiave descrittiva di un ambiente e dei suoi abitanti sposta inevitabilmente la nostra attenzione sull'interpretazione dei personaggi. E così ciò che notiamo subito è la grande differenza recitativa tra personaggi primari e secondari. Le masse sono formate da attori non professionisti che seguono i modelli interpretativi neorealisti: uomini e donne appartenenti a quei luoghi (presi dalle strade, da quelle strade) che parlano i dialetti locali. I quattro personaggi principali (Silvana, Walter, Francesca e Marco) invece sono attori professionisti coscientemente calati nei panni dei loro personaggi e, pertanto, più vicini al canone divistico americano.
Tuttavia, facendo un passo ulteriore, possiamo notare come anche coloro che non sono professionisti diventano in un certo senso "attori". Anch'essi si mostrano alla macchina da presa e al pubblico. Anche i passeggeri del treno che si affacciano dai finestrini nei primi minuti del film non sono soltanto uomini e donne incuriositi dalla Mangano che danza. Sono piuttosto persone che vogliono affacciarsi dal finestrino per farsi guardare mentre interpretano il ruolo di passeggeri. Lo stesso accade per le mondine che cantano e lavorano consapevoli di essere osservate non soltanto dai guardiani ma anche e soprattutto dallo spettatore.
De Santis ci mostra uomini e donne che diventano attori e attrici non perché agiscono davanti all'occhio della macchina da presa, ma perché fanno parte di un film che vuole mostrare le loro vite come "parti" da recitare e da interpretare. Allo stesso modo il set diventa luogo di unione e (con)fusione tra vita reale e finzione, in cui non c'è più differenza tra attori e non attori, ma soltanto tra modi di recitazione.
Silvana, Francesca, Marco e Walter fanno parte di una struttura melodrammatica in cui ognuno ha un ruolo, un carattere e una recitazione diversa, rappresentando di conseguenza quattro aspetti diversi della storia. Silvana è indubbiamente la colonna portante del racconto. Lei è la fonte dalla quale scaturisce il dramma. Francesca, diametralmente opposta a Silvana, contribuisce a causare il dramma. Walter (che lascia trapelare una recitazione più impostata dovuta alla provenienza e all'esperienza teatrale di Gassman) è il personaggio negativo per eccellenza, l'anti-eroe, seduttore e delinquente, spesso ripreso nell'ombra, che sfrutta ogni situazione (il lavoro delle mondine) ed ogni persona (prima Francesca e poi Silvana) per poter compiere il suo furtivo piano di rubare il riso.
Ad un uomo meschino e scuro come Walter non può che opporsi il sergente Marco Galli, che agli abiti e al cappello neri del malvivente contrappone la divisa chiara del militare. Il carattere di Marco è simile a quello di Francesca così come la recitazione è più vicina a quella di Doris Dowling rispetto a quella degli altri due attori. È il rappresentate della Legge e della giustizia; è colui che veste la divisa (anche se attende ansiosamente il congedo), ed è il "buono" che riesce a sedare la lite tra le mondine clandestine e quelle regolari. Marco, il personaggio maschile apparentemente meno imponente, riveste invece il ruolo di guida per le mondine e per le due protagoniste, influenzandone le scelte e le azioni.
Di conseguenza la recitazione che De Santis chiede a Raf Vallone e Doris Dowling è decisamente più fredda e meccanica, più distaccata in modo da poter "controllare" meglio le emozioni. Quello che trasmette la loro interpretazione è la consapevolezza di essere dei personaggi che agiscono nella storia (come vuole il Neorealismo) mantenendo, però, un distacco "divistico".
Vittorio Gassman e Silvana Mangano sono invece decisamente più passionali, hanno una fisicità ed una corporeità ben definita che li conduce inevitabilmente dal ballo scatenato alla violenza (di Walter che colpisce Silvana con un ramo), dall'affronto con l'incorporeità di Francesca e Marco (i loro opposti) alla morte.
Walter e Silvana sono dunque i personaggi "cattivi" del film. In loro si riconoscono la seduzione e l'erotismo. Sono belli, affascinanti, trascinatori e leader. Riescono a sedurre coloro con cui hanno a che fare. Ammaliano gli altri personaggi e lo spettatore grazie al loro essere portatori dei simulacri americani che dilagano nell'Italia del dopoguerra.
Tuttavia tali modelli, percepiti da tutti come una soluzione di riscatto sociale, rischiano di offuscare l'identità e le origini di questo popolo e di queste terre. L'ideologia americana - denuncia di De Santis -, apparentemente innocua, vuole corrompere la società europea e (soprattutto) i suoi giovani attirandoli con il boogie-woogie, il chewing gum e il facile lusso. La condanna del regista dell'"americanità" viene rappresentata dalla sorte tragica che spetta a Walter (ucciso proprio da Silvana) e da quest'ultima che sprofonda nella cruda realtà, gettandosi (fisicamente) verso quella stessa terra da cui voleva allontanarsi. Questo è il destino di chi non accetta la propria condizione (di povertà).
Siamo quasi giunti alla fine di Riso amaro e la drammaticità delle scene che raccontano la morte dei personaggi "negativi" pare aver allontanato del tutto l'occhio e la coscienza dello spettatore dalla natura documentaristica, descrittiva e realista del film. O almeno così sembrerebbe se nell'ultima scena non sentissimo inaspettatamente la voce dello speaker radiofonico. La stessa voce (e lo stesso volto) che ci aveva calato poco per volta in questa storia è tornato per "risvegliarci" dalla visione. Per noi seduti in sala, esattamente come per gli uomini e le donne di quelle terre, è giunto il momento di andare e tornare nel mondo reale: «e così un'altra monda è passata. Ora si torna a casa».
La comparsa della parola "fine" sullo schermo scollega definitivamente lo spettatore dalla storia del film e mentre le immagini si dissolvono alla vista dello spettatore la voce dello speaker, l'unica vera voce narrante, svanisce in parole mute che solo ora possiamo "sentire".
Per tutte queste considerazioni, Riso Amaro non si può che definire un Capolavoro autentico. Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI.