THIS MUST BE THE PLACE
Recensione
recensione di F. Tiberi
Cheyenne (Sean Penn), ex rockstar ritiratasi dalle scene in seguito ad un trauma, passa le sue giornate in una specie di limbo, in cui noia e depressione finiscono per confondersi. Nonostante il suo stato d'animo, Cheyenne porta gioia ovunque vada, con il suo look simile a quello del leader dei Cure, la sua camminata flemmatica da ricco che si sente in colpa di esserlo, e la sua flebile vocina, che può scoppiare da un momento all'altro in un urlo isterico davvero esilarante.
Quando viene a sapere che suo padre sta morendo, Cheyenne si fa coraggio, visto che non ci parla da trent'anni, e parte per andare a trovarlo, ma arriva troppo tardi. Una volta in America, il viaggio di Cheyenne si trasforma nella ricerca dell'aguzzino nazista che umiliò il padre ad Auschwitz. Dopo aver attraversato l'America e vendicato suo padre, Cheyenne tornerà a casa completamente cambiato.
"Il Divo creava nuove aperture nella complessità delle cose italiane. Questo nuovo film è stata una bella e lussuosa vacanza". Così ha parlato Paolo Sorrentino della sua ultima fatica, This Must Be The Place, dal nome della canzone dei Talking Heads, la preferita dello stesso regista. La natura di questa opera sta proprio nella definizione data da Sorrentino, "una bella e lussuosa vacanza" in cui ha potuto passare in rassegna, infantilmente se vogliamo, tutte le cose che più gli piacciono: il road movie, la figura del rockettaro anni '80, la musica di David Byrne, campi lunghi che mostrano lo sterminato panorama americano del Michigan, Detroit, New Mexico e New York.
Il punto di forza del film è costituito senza dubbio dal personaggio di Cheyenne, che appare in una via di mezzo tra Robert Smith e una signora di mezz'età che non vuole invecchiare. La camminata e la voce sono invenzioni di Penn, che, dice Sorrentino, è riuscito a rendere perfettamente l'uomo cinquantenne, intrappolato nella sua adolescenza e oppresso dai sensi di colpa. Anche la sceneggiatura, scritta dal regista napoletano insieme ad Umberto Contarello, è molto curata ed equilibrata tra momenti drammatici e momenti ironici. La "dittatura musicale di David Byrne" e una stupenda fotografia, che deforma il naturale andamento del paesaggio, prediligendo l'uso del grandangolo, completano questo tripudio di gusto sorrentiniano.
Tra i tanti temi trattati in questo film emergono quello dell'Olocausto, attraversato in modo diverso per mezzo di un paradossale cacciatore di criminali nazisti come Cheyenne, e quello dell'assenza del padre, elemento autobiografico proposto in maniera molto pudica, riservata e rassegnata.
(recensione di Francesca Tiberi)