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recensione Silent Souls] - La prima sensazione è quella di trovarsi di fronte un cinema del tutto diverso. Lontanissimo dal chiasso colorato delle confezioni americane, distante dalle speculazioni intellettualistiche di tanta scuola europea, contrario all'esotismo facile che molti cineasti spolverano sulle loro cartoline patinate. E' un cinema, quello di Aleksei Fedorchenko, fatto d'aria e di luce. Un cinema fotografico nel senso piu' eletto del termine. L'aggettivo silent del titolo (tradotto: l'originale Ovsyanki è molto piu' elegiaco) non è solo per le anime piene e dolenti dei protagonisti, ma piu' estesamente per tutto l'immaginario pennellato dal regista: per una Russia sovrana e mistica, per una memoria popolare zittita da secoli di cambiamenti ma sempre lì a ribollire di ricordi, per la dimensione (l'unica) in cui vivono i sentimenti piu' veri: l'intimità, sofferta e silenziosa, di ogni singolo cuore umano. C'è una saudade artica che pervade il racconto di Miron, proprietario di una cartiera e del suo fidato dipendente Aist, insieme nel viaggio di rito che segna per Miron l'estremo addio all'amata moglie Tanya. Il loro pellegrinaggio nel cuore del madre Russia, ispirato dalle tradizioni degli antichi e scomparsi Merja, è allo stesso tempo la riscoperta di una cultura sepolta e uno svelamento lento e sincero di ciò che c'è alla radice dell'essere uomini: il legame amniotico con le proprie radici, il bisogno di riti e di credenze che consolino delle perdite terrene, la bellezza che scaturisce dall'amore e che sopravvive alla morte, congelata nell'atto involontario e necessario del ricordo. Si esce dal film di Fedorchenko senza davvero uscirne: con l'anima alleggerita dalla sua spiegazione del dolore e della separazione, così serenamente consapevole; con gli occhi ancora pieni del suo lirismo fotografico, fatto di immagini lente e sfumate, di inquadrature così ampie e ragionate da evocare tutto quello che i dialoghi omettono. Da vedere, di corsa.
(La recensione del film "
Silent Souls" è di
Elisa Lorenzini)
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