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recensione Quijote] - Confrontarsi con un'opera omnia come il "Don Chisciotte" poteva significare affogarsi nell'impossibilità di dire tutto oppure accennare a tutto restando in superficie. Mimmo Paladino, sognatore esperto e picaro sanguigno, condensa in settantacinque minuti milleduecento pagine di visioni e di verità paradossali, tutte le forme del narrabile e una morale tanto semplice quanto indigesta: la follia è il motore del mondo. Con una tessitura fatta di immagini pure e di citazioni, affidandosi a volti che sembrano usciti da un racconto di Michael Ende, questo eccentrico aedo campano riesce a condensare in poche battute lo spirito di uno dei massimi capolavori della letteratura. Ma, nonostante la scelta calcolata di realizzare un docu-film senza particolari pretese narrative, senza un plot avvincente e senza altro lustrino se non la chiarezza della sua fotografia, questa versione dei fatti rimane, ahimè, deficitaria di fatti. Il "Don Chisciotte" è grande esempio di perizia letteraria, sfoggio di penna e di inventiva. Quello di Paladino è una rapsodia fotografica disseminata di nenie e di massime: lascia intravedere la complessa architettura narrativa che sottende alla vicenda, scarna, del cavaliere errante in preda a personalissime rivisitazioni del reale. Ma resta più una chiosa filosofica che un'esposizione della storia originaria. Il Quijote di Paladino, un etereo e smorfioso Peppe Servillo, calca le orme del suo eponimo con fin troppa convinzione, calandosi completamente nella visione astigmatica di un mondo cucito ad hoc attorno ai propri ideali scaduti. Sembra trascurare l'ispirazione avventurosa e missionaria del viaggio di Don Chisciotte e con essa l'overdose di fantasia e l'attrazione fatale per le fiabe. E' un eroe adulto, quello voluto da Paladino: un uomo che, in qualche modo sotteso, denuncia costantemente la sua inadeguatezza a confrontarsi con le banalità della vita e sembra soffrirne. Più riuscita è di sicuro la sua controparte: il Sancho Panza di Lucio Dalla, bambinesco ma saggio, buffo e pittoresco ma dotato di una conoscenza carnale del mondo che lo rende permeabile a qualunque sua lettura, sia essa cinica o sognante. Dulcinea, dal canto suo, è più una ninfa imbastardita a forza che un'autentica matrona di campagna: Ginestra Paladino non ha forse il physique du role per rispondere ai parametri voluti da Cervantes e aleggia sulla scena più per incarnare un ideale che per confutarlo. "Quijote" non nasce probabilmente per parafrasare il suo originale ma per commentarlo. Intento nobile e a suo modo riuscito. Ma invoglia a ben altra rilettura del romanzo: più densa, più ambiziosa, che provi a raccontare il mito della Mancia e non solo a interpretarlo.
(La recensione del film "
Quijote" è di
Elisa Lorenzini)
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