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PINK SUBARU - RECENSIONE
Recensione

Recensione di Elisa Lorenzini
Se tutti gli esordi registici avessero l'ironia e l'inventiva di "Pink Subaru" del giovane Kazuya Ogawa (giapponese, classe 1977) non ci sarebbe più da temere per il cinema internazionale. Perché, al di là dei limiti strutturali e narrativi che un'opera prima ambiziosa si porta dietro, di ritmo e di fantasia questa commedia picaresca nippo-italo-israeliana ne ha d'avanzo. Ambientato a Tayibe, avamposto arabo-israeliano al confine con la Gisgiordania, "Pink Subaru" è la storia di un sogno tanto umile quanto sfizioso: una Subaru Legacy nuova di zecca, che per Elzober, cuoco in un ristorante di sushi, vedovo e con due bambini a carico, significa non solo una sospirata concessione alla sua vanità dopo anni di rinunce, ma anche la garanzia di un legame fisico con la civiltà delle metropoli Gerusalemme e Tel Aviv. All'apice dei festeggiamenti per l'ambito auto-regalo, ecco l'imprevisto: la Subaru sparisce. Ancora fresca di concessionario e non assicurata. Il film inizia da qui: dalla concitata ricerca della macchina dei sogni, che coinvolge una truppa vivace e stralunata di parenti e amici, colleghi di lavoro ed ex ladri di automobili. Su e giù per quella devastata fetta di deserto che è il confine israeliano, l'insolita ciurma finirà per svelarne l'anima più vera, quella chiassosa e folkloristica che vive prima e dopo i chekpoint, le strade militarizzate, i cecchini e i kamikaze. In cabina di regia, si mesce la cultura nipponica d'origine con le esperienze di vita a New York e in Italia, speziando il tutto con le impressioni e i sapori di un viaggio in Israele e Palestina che Kazuya Ogawa ha intrapreso nel 2008, in tandem con l'attore palestinese Akram Telawe. "Pink Subaru" è evidentemente un flusso di coscienza autobiografico, un collage dadaista in cui si fondono e si contagiano l'estetica cartoonesca e poppeggiante del Giappone odierno, miti e stereotipi ebraici e anche un certo macchiettismo italico. Il limite più
evidente di questa ardita interpretazione del melting pot contemporaneo è l'abbondanza di elementi, il tentativo di incollare tante storie su un unico sfondo. Se di tutte si da un accenno, nessuna viene approfondita. Ne deriva una carrellata di incipit ben formulati ma sfibrati, tronchi, decapitati con l'ingenuità di un cineasta alle prese con la sua prima volta. Il carattere sapido di questa commedia on the road si avverte in punta di lingua. Per un assaggio più corposo, Kazuya avrebbe dovuto cedere con più slancio alla natura folle dei suoi personaggi, assecondarne con più brio le trovate istrioniche, i toni alticci, gli eccessi caratteriali. Gli perdoniamo l'immaturità tecnica. Ma non il poco coraggio.



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