recensione di E. Lorenzini
C'è una sottile linea rossa che separa il lecito dal noioso, al cinema. Se lecito è più o meno tutto quello che attiene alla forzatura e all'innovazione dei limiti tecnici, lo svecchiamento, l'azzardo e la provocazione, noioso rischia di essere tutto quello che, perso di vista l'input narrativo, resta fine a se stesso: strutture affascinanti ma leziose, riflessioni meta poetiche per addetti ai lavori, voli pindarici attorno a significati supposti racchiusi in un'ombra o in un profilo. E' a questa insidia che sembra cedere, in più punti, il regista Fabrizio Ferraro: il suo "Penultimo paesaggio", più che un esordio nel lungometraggio, è il coronamento di una carriera nella fotografia. La storia, bertolucciana quanto basta, di un uomo e una donna che si incontrano e si amano nella più astorica, astratta e astrusa delle Parigi cinematografiche, è solo un pretesto accidentale che giustifica una digressione tecnico-filosofica sulle stranezze soavi della vita: il tipo di storia che non ha pretese narrative ma si svolge in un presente dilatato e pneumatico, nella più totale assenza di snodi, vettori e dinamiche. Di cinetico, in questo raffinato collage di sensazioni visive, c'è solo il viaggio della macchina da presa da un'inquadratura all'altra, l'alternanza dei punti di vista, il tuffo improvviso dalla musica al silenzio e viceversa: manca un sia pur minimo accenno di intreccio, quella nota anche soffiata di prospettiva che scardini il racconto e lo proietti in avanti, diverso dall'origine e vicino ad una fine. E purtroppo, in un mondo in cui il cinema, anche il più indipendente e sperimentale, esiste per una platea, un'opera come "Penultimo paesaggio" sconta la sua estraneità agli obblighi del grande schermo: la sospensione dell'incredulità, il patto con lo spettatore che autorizza il regista a creare realtà parallele e spettacolari, a muoversi lontanissimo dall'ordinario, a modellare vicende umane buttando un occhio oltre l'arcobaleno. E' evidente che a Ferraro non importa il verdetto di pubblici vari ed eventuali: la sua è ricerca sensoriale allo stato puro. Ma un film che, come da didascalia, è "per tutti e per nessuno", può definirsi un film? Permettete, a tutti e a nessuno, di dubitarne.
(La recensione del film "
Penultimo Paesaggio" è di
Elisa Lorenzini)
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