HARRY POTTER E I DONI
DELLA MORTE - PARTE II
Recensione
di Mirko Nottoli
L’ultimissimo capitolo dell’epopea di Harry Potter (“HP7 II 3D”, pare un codice fiscale) parte già meglio rispetto ai predecessori: è l’ultimo e dura meno (non poco, meno!). Cominciata esattamente due lustri fa, abbiamo avuto serie perplessità sui reali meriti di questa saga, letteraria e cinematografica, e non le abbiamo mai nascoste. Perplessità che con l’episodio conclusivo vengono in parte fugate. Lo stavamo aspettando del resto con ansia, per vari motivi, da una parte perché non ne potevamo davvero più di Hogwarts, di Voldemort, di Grifon D’Oro, di Severus Piton, di Horcrux, di Azkaban e di un’infinità di altre facezie dai nomi stupidi. Dall’altra perché dopo tutta questa fatica spesa, dopo 10 anni in cui siamo cresciuti accompagnando la crescita degli ormai ex-maghetti, eravamo curiosi di sapere come andava a finire, di sapere se eravamo stati presi in giro oppure no. E il finale, pur non essendo quell’illuminazione che nella migliore delle ipotesi si agognava, si conferma all’altezza delle aspettative: riserva sorprese, fornisce le riposte di cui eravamo in cerca, porta a convincente compimento i dubbi e gli interrogativi lasciati scientemente in essere. Cosa nasconde Piton? Qual è la specificità di Harry Potter? Perché Voldemort lo vuole morto? Cosa lo rende speciale? Lo scontro finale con i nostri asserragliati all'interno della scuola e le truppe del male che premono dall'esterno sembra ricalcata dal “Signore degli anelli” e la “spiega” sotto forma di flashback, che come una didascalia va a ricomporre tutti i pezzi del puzzle, è un espediente narrativo alquanto magro, tuttavia è proprio durante la battaglia, lì dove tutte le trame si sono date appuntamento, che l'intera saga di Harry Potter può volare finalmente in alto. E' lì che i nostri eroi dimostreranno una volta per tutte il loro valore, lì che l'unione saprà darsi forza in nome della giustizia e della lealtà, lì che i pavidi si scopriranno impavidi, si andrà incontro al proprio destino e l'ardore che gonfia i cuori darà spessore al senso di sacrificio e solidarietà. Ci sarà gloria per tutti e tutti troveranno il giusto motivo per lottare. Come deve essere nelle favole e nei romanzi di formazione. Ne è valsa la pena? Probabilmente no. Harry Potter resta e resterà sempre una saga estenuante, di una lunghezza oltre ogni ragionevolezza, in cui persiste la sensazione di un business commerciale stirato all'inverosimile. Quando Voldemort – il cattivo più sfigato che si sia mai visto, con quell'espressione di colui a cui pare stiano pestando un callo – chiama Potter per via telepatica nella foresta a spararsi raggi laser ognuno con la propria bacchettina magica, non ci si può non chiedere perché non l'abbia fatto prima, nel primo o al massimo nel secondo episodio, invece di ammorbarci per 8 film con calici di fuoco, ordini della fenice, principi mezzosangue e altri parentesi irrilevanti nell'economia del racconto. Domanda legittima ma ormai prescritta. Vero è che Harry Potter si congeda lasciandoci un retrogusto piacevole che, anche se non riscatterà l'opera omnia, ce la farà comunque ricordare con un pizzico di nostalgia (provate a pensare al primo episodio, con chi eravate, dove eravate, cosa facevate, e provate a pensare adesso, con chi siete, dove siete, cosa fate: è davvero una vita quella che è trascorsa), e con la consapevolezza che il tempo, anche quello che di primo acchito sembra perso, non è mai del tutto sprecato.