Non era facile tradurre in immagini una prosa ubiqua e scivolosa come quella di Sandro Veronesi: una prosa sciolta al limite dell'inconsistenza, nutrita di sensazioni e di ipotesi emotive più che di fatti. Non era facile. Eppure Matteo Rovere, in qualche modo, ce l'ha fatta. Ha preso la storia poco storica di Méte e di Belinda, coppia di fratellastri vagamente incestuosi ammalati di insicurezza in una Roma dilatata e opprimente, e l'ha resa concreta. Rispettando, però (e non era compito semplice) la dimensione aerea e introspettiva del sentiero su cui arrancano i protagonisti, usando una grammatica filmica essenziale, corporea, inquadrando la carne che provoca, gli occhi che indugiano, le pose che svelano e poi ritrattano. La gioventù incerta fotografata da Rovere parla con i gesti, incapace com'è di articolare un progetto di vita razionale. E la scelta del cast conferma la volontà di usare fisicità potenti, marcate: visi e movenze che sintetizzano epopee di pensieri inespressi, teorie di sogni amputati e caratteri incompleti. Andrea Bosca è una meteora inquieta che cerca di sposare l'eccellenza borghese con un subconscio di pulsioni molto meno eccellenti e ancor meno borghesi. Michele Riondino è l'obbedienza cieca al richiamo dell'apparenza, la schiavitù dell'occhio e la fame continua di emozioni-lampo. Miriam Giovanelli sguscia sullo schermo con la grazia famelica di una ninfa, riecheggiando altre eroine giovani e ambigue, dalla Lolita di Kubrick alla Mena Suvari di "American Beauty". Forse è proprio il continuo ammiccare della primadonna l'unico elemento stonato: quello che avrebbe dovuto essere un oggetto del desiderio ancor più confuso e balbuziente dei suoi ammiratori, si esaurisce nella caricatura bambolesca di una pin-up. Sbavature a parte, Rovere centra bene e con pochi sforzi tecnici l'obiettivo del racconto di Veronesi: ritrarre l'andamento ondivago di una generazione, ingigantirne gli stati d'animo volubili, le passioni tanto incendiarie quanto effimere, il malessere senza contorni. Non era facile tradurre in immagini una prosa ubiqua e scivolosa come quella di Sandro Veronesi: una prosa sciolta al limite dell'inconsistenza, nutrita di sensazioni e di ipotesi emotive più che di fatti. Non era facile. Eppure Matteo Rovere, in qualche modo, ce l'ha fatta. Ha preso la storia poco storica di Méte e di Belinda, coppia di fratellastri vagamente incestuosi ammalati di insicurezza in una Roma dilatata e opprimente, e l'ha resa concreta. Rispettando, però (e non era compito semplice) la dimensione aerea e introspettiva del sentiero su cui arrancano i protagonisti, usando una grammatica filmica essenziale, corporea, inquadrando la carne che provoca, gli occhi che indugiano, le pose che svelano e poi ritrattano. La gioventù incerta fotografata da Rovere parla con i gesti, incapace com'è di articolare un progetto di vita razionale. E la scelta del cast conferma la volontà di usare fisicità potenti, marcate: visi e movenze che sintetizzano epopee di pensieri inespressi, teorie di sogni amputati e caratteri incompleti. Andrea Bosca è una meteora inquieta che cerca di sposare l'eccellenza borghese con un subconscio di pulsioni molto meno eccellenti e ancor meno borghesi. Michele Riondino è l'obbedienza cieca al richiamo dell'apparenza, la schiavitù dell'occhio e la fame continua di emozioni-lampo. Miriam Giovanelli sguscia sullo schermo con la grazia famelica di una ninfa, riecheggiando altre eroine giovani e ambigue, dalla Lolita di Kubrick alla Mena Suvari di "American Beauty". Forse è proprio il continuo ammiccare della primadonna l'unico elemento stonato: quello che avrebbe dovuto essere un oggetto del desiderio ancor più confuso e balbuziente dei suoi ammiratori, si esaurisce nella caricatura bambolesca di una pin-up. Sbavature a parte, Rovere centra bene e con pochi sforzi tecnici l'obiettivo del racconto di Veronesi: ritrarre l'andamento ondivago di una generazione, ingigantirne gli stati d'animo volubili, le passioni tanto incendiarie quanto effimere, il malessere senza contorni.
(La recensione del film "
Gli Sfiorati" è di
Elisa Lorenzini)
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