A DANGEROUS METHOD
Recensione
recensione di E. Lorenzini
Lui, lei, lui, l'altro. Più che un triangolo, la storia ritenuta fondativa del pensiero psicoanalitico moderno, è un quadrilatero. Dove il quarto elemento, inanimato ma pervasivo, è la psicoanalisi stessa. La relazione tra Carl Gustav Jung, che nella Zurigo dei primi del Novecento si ritaglia la sua fetta di fama medica sfidando a distanza il suo mentore-nemesi Freud, e la diciottenne russa Sabina Spielrein, è una trama di esperimenti terapeutici, autoesorcismi e passione ossessiva. E coinvolge, anche se in modo puramente intellettuale, lo stesso Sigmund eroe eponimo della psichiatria mondiale. L'acclamato David Cronenberg, che di psicologie bipolari e nevrosi distruttive è da sempre un cantore (La mosca, Il pasto nudo e Crash bastano a confermarlo), si inoltra in questa torbida vicenda di pulsioni erotiche e avanguardie scientifiche con un rigore analitico che non concede troppo spazio all'elemento emotivo ma lo ingabbia in una narrazione asettica, volutamente sterilizzata. Una narrazione neutra nel ritmo, nei colori, nei costumi, nei dialoghi.
Michael Fassbender è uno Jung ingessato e glaciale, che tradisce i suoi conflitti in poche smorfie contratte e per tre quarti del film sbiadisce nel suo aplomb teutonico. Viggo Mortensen, fedelissimo di Cronenberg (è al suo terzo film in tandem col regista, dopo The History of Violence e La promessa dell'assassino) non presta al suo Freud l'autorevolezza vegliarda che ci si aspetterebbe da un gigante del pensiero: rimane, nonostante la barba sale e pepe, il giro vita ingrossato e il sigaro incollato alle labbra, troppo bello, troppo eroico, troppo action man. E Keira Knightley, di cui si è molto lodato lo sforzo per calarsi dal suo olimpo di eroine romantiche e piratesse nella camicia di forza dell'isterica Sabina, si sforza davvero un po' troppo. I suoi tremiti, le sue torsioni facciali, i suoi accessi di follia, sono spinti al limite della caricatura. Riacquista la sua dignità e l'immobilismo che le è congeniale nella seconda metà del film, quando la Spielrein ha archiviato la sua metà oscura e si avvia a diventare la più eminente psichiatra del suo tempo: una voce appaiata, per spessore e innovazione, a quelle degli stessi Freud e Jung. Spicca su tutti il breve, esilarante cameo di Vincent Cassel: brutale e irriverente nei panni di Otto Gross, medico tossico ed erotomane, che appare e scompare nel tempo necessario a Jung per farsi convincere che la monogamia è un'illusione. Il film di Cronenberg scivola in più punti: fin troppo composto, nella sua ansia di farsi cronaca e non melodramma, si arena in un reportage piatto che non esaurisce la cronaca e snobba troppo apertamente il melodramma; è sommario, incompleto nella ricostruzione storica dei fatti (il viaggio in America di Jung e Freud si intravede ma non se ne parla), sbrigativo nello svolgere l'evoluzione dei personaggi. Resta il fascino di una pagina cruciale della storia del pensiero, scritta da menti fervide e visionarie. Ma alla Storia non si deve dire grazie. Dal cinema, quello d'autore, quello di qualità, ci si aspetta invece che sia all'altezza di raccontarla.
(recensione di Elisa Lorenzini)