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IERI OGGI E...

PULP FICTION
di Quentin Tarantino

di Francesca Lenzi
Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi CAPOLAVORI del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per capire se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno presi in esame solo opere che all'epoca venivano considerati CAPOLAVORI per capire, analizzando il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere, circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali o, ETERNI anche OGGI e DOMANI.
Se in Amarcord la signora all'uscita dal cinema dichiarava "Era tanto bello ho pianto tanto" (espressione volutamente priva di punteggiatura atta a troncare un concetto bensì perfettamente congiunto), lo spettatore di Pulp Fiction mira, estasiato, lo schermo, rapito dall'indefinibile, eppure assolutamente percettibile, sensazione di bellezza incondizionata. Il dilemma è riscontrabile solamente nell'imbarazzante scelta dell'elemento determinante tale luminosa grazia filmica. Palma d'oro a Cannes, Oscar per la miglior sceneggiatura originale, l'opera di Tarantino costituisce un prodotto artistico di sorprendente fascino e attrattiva; e solo quando scorrono i titoli di coda è indispensabile arrendersi alla coralità magistralmente elaborata dal regista, geniale tessitore, in grado di somministrare seduzione visiva, entusiasmo sonoro, malia dialettica. La parola, forse più di ogni altra magia, è l'autentico artefice di una sì alta considerazione: sin dalla prima sequenza, attraverso il dialogo di Pumpkin (Tim Roth) e Honey Bunny (Amanda Plummer) uno spontaneo quanto eccitato sorriso nasce sulle labbra dello spettatore. Che meraviglia! Il linguaggio come forma di estrinsecazione spettacolare, veicolo di eccelsa intelligenza e acutissima originalità; quasi sempre, anche nei casi in cui siano presenti più personaggi, è facile riconoscere come l'attenzione si concentri sulla conversazione tra due figure per volta, spesso per mezzo dello scambio di pensieri rapido ed esaltante, teso a mantenere alto l'interesse del pubblico. Non mancano i monologhi, ulteriore prova di immensa capacità significante: ne sono testimoni, tanto per citare solo alcuni esempi a caso tra la miriade architettata da Tarantino, la declamazione di Jules Winnfield (Samuel L. Jackson) del versetto di Ezechiele 25/17 "il cammino dell'uomo timorato" recitata con impeto omicida in conclusione al soliloquio rivolto ai giovani ed ingenui spacciatori; la brutale benché limpida e lineare spiegazione di Marsellus Wallace al pugile Butch (Bruce Willis) circa il programmato esito dell'incontro, con le altrettanto semplici conseguenze che deriverebbero da un'eventuale (non auspicabile) infrazione del patto. E che dire dell'assurdo ed ingegnoso colloquio tra Jules e il collega Vincent Vega (John Travolta) intenti, mostrando una tranquillità non prevista dalla situazione, a far scorrere pochi minuti di attesa prima di entrare in azione? Pulp Fiction rappresenta, in un certo senso, il film cult per eccellenza, concepito all'origine quale modello stesso con la presenza imponente di scene ideate a tale scopo; una su tutte l'overdose di Mia (Uma Thurman) e le successive peripezie di Vincent al fine di evitare la definitiva dipartita della moglie di Marsellus. Il momento dell'iniezione di adrenalina dritta al cuore della moribonda è e resta una messa in opera di rara emozionalità e riuscita stilistica. O ancora, il precedente twist interpretato dai due attori, leggendario già alla nascita, progettato nell'ottica della celebrazione. Quentin Tarantino firma una pellicola praticamente perfetta sotto ogni punto di vista, compresa la composizione del racconto suddiviso in capitoli, non necessariamente ordinati in maniera cronologica. Scelta che ricorda intensamente, nonostante una profonda differenza (di contenuto e di lessico), Rapina a mano armata di Stanley Kubrick, scandita dalla combinazione ad incastro degli eventi, seguiti di volta in volta attraverso una differente visuale. Pulp Fiction è il risultato dell'esibizione concertata dei protagonisti, meritevoli, tutti, dello stesso peso specifico all'interno della storia, abili nel dare al proprio ruolo una personale e favolosa parte, così da creare un'atmosfera di sfavillante inventiva e capacità interpretativa, nella quale ogni figura riempie lo schermo al massimo simo volume, senza apparire esagerato ed invasivo nei confronti degli altri. Allora perchè non valutare come una forma di metafora la valigetta dal contenuto misterioso eppure abbacinante, immagine traslata del film capolavoro di Tarantino, complicato, indecifrabile, bellissimo, indimenticabile? Finiti i titoli di coda, assaporando la stupenda musica, sembra ancora di sentire la voce affranta, ma fiera, di Marsellus pronunciare l'aria di addio, simbolo della grandezza già divenuta mito: "No, amico. Mai stato così lontano dallo stare bene".


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