di R. Baldassarre
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Per mio figlio recensione] - Sin da subito veniamo immersi nel dramma della storia, in una tensione tumultuosa che preme tra le quiete immagini. Diane ci viene mostrata in una gelida alba, momento "bordeline" di ogni giornata, ponte tra l'irrazionalità notturna e la razionalità diurna. La vediamo attraverso un vetro, che riflette l'albeggiante paesaggio, che meditabonda sbatte la testa sulla gelida lastra di vetro. Un gesto che contiene in sé una violenza verso se stessi e un turbamento d'azione, su che cosa è giusto fare. La repentina fuga dalla clinica, ci da le ultime indicazioni su questa tormentata donna: persa nel suo dolore, ma allo stesso tempo scattante e lucida nell'azione da perseguire. Per mio figlio, tratto dal romanzo Moka di Tatiana de Rosnay e sceneggiato da Frédéric Mermoud e Antonin Martin-Hilbert, è un glaciale dramma che trattiene, dietro le rafferme immagini, l'enorme tragedia della protagonista (e degli altri personaggi). Quasi quarant'anni fa c'era stata una pellicola similare, che trattava un soggetto affine. L'opera in questione era di Claude Chabrol e s'intitolava in italiano Ucciderò un uomo, cruento titolo che si equiparava all'originale "Que la bête meure". Per nulla sarcastico e caricaturale come l'illustre predecessore, anche Per mio figlio, però, è un tagliente tentativo di disamina dell'animo umano. Scagliando in una situazione limite un personaggio, in questi casi la morte violenta di un amatissimo figlio, ambedue i registi riflettono sulla giustezza della vendetta e del labilissimo confine tra bene e male. Mermoud, al secondo lungometraggio dopo Complices (2009), (ri)crea una nuova indagine per ripercorrere la verità. Come nella sua prima opera, il giallo è solamente un espediente, un mezzo narrativo per investigare sui personaggi coinvolti nella tragedia. Il colpevole, cioè la Mercedes marrone (moka, la sfumatura del colore), viene rapidamente rintracciata, e la trama si focalizza sul teso e fragile stato di Diane, sempre in bilico. Quando stringe il "rapporto" con Maelène, le ambiguità delle sue azioni di vendetta si fanno più dubbiose. Due donne differenti, di fisionomie e caratteri opposti, ma ambedue sole, che si aggrappano a una vita che sta andando alla deriva. Diane, nel gorgo della sua ossessione, si concede anche una notte al giovanissimo Vincent, stimolo razionale/irrazionale per sentirsi viva e desiderata. Mermoud, per dare compattezza emotiva alla storia, utilizza sapiente una fotografia dai colori densi, di Irina Lubtchansky, in cui i quieti paesaggi della profonda provincia francese acquistano una velata brutalità. Una perenne tensione che rispecchia gli animi dei personaggi, e che si libera solamente nelle amare confidenze che si fanno i vari personaggi.
(La recensione del film "
Per mio figlio" è di
Roberto Baldassarre)
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