di M. Marescalco
[
Old recensione] - Pochi registi sono in grado di mobilitare i loro fan e di ottenere i più disparati riscontri dalle masse come M. Night Shyamalan, enfant prodige che ha donato al mondo Il sesto senso, un progetto originale in grado di superare in slancio i 600 milioni di dollari di incassi in tutto il globo, e che ha affrontato un percorso discendente condannato con troppa cattiveria dai media e dalla critica.
Dopo la collaborazione con la factory di Jason Blum, M. Night Shyamalan è sembrato asciugare e sintetizzare il suo sguardo sul mondo e tornare alle radici dell'orrore (The Visit) e ha chiuso la trilogia aperta nel 2000 da Unbreakable (Split e Glass), cinecomic che nemmeno Disney, all'epoca, volle vendere come tale per paura che il film fallisse al botteghino.
Old, l'ultimo film di un regista capace come pochi di portare in scena i fili invisibili che legano tutti gli abitanti del mondo, è un progetto sul rapporto tra Tempo ed esseri umani. Tratto da Castello di sabbia, graphic novel di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters edita in Italia da Coconino, Old racconta la storia di un gruppo variegato di persone in vacanza che trascorre la giornata in una spiaggia appartata e lontana dal turismo di massa. Su questa spiaggia, però, ogni mezz'ora di tempo corrisponde a circa un anno di esistenza umana.
Ancora una volta, il regista di The Village focalizza la sua attenzione su un gruppo di persone isolate e rinchiuse in una bolla fuori dal tempo. Come in Split, M. Night Shyamalan torna a lavorare su persone ferite dalla vita, su chi ha vissuto dolori inenarrabili e sta attendendo la fine, sulla forza di un terrore provocato dal cambiamento fisico e mentale. In Old, il corpo e la mente sono trattati come due ordigni pronti a detonare, oggetti che vengono meno sotto ai colpi di mannaia del tempo. Il tempo, però, come da tradizione nel cinema dell'autore di Philadelphia, non è soltanto una condanna ma anche una cura in grado di aiutare le ferite a cicatrizzare.
"Non serve a nulla continuare a provare rimorso", raccontava la madre a sua figlia nel finale di The Visit riferendosi all'allontanamento paterno. Ecco che Old consente di toccare con mano il processo attraverso cui le ferite si rimarginano, le famiglie provano ad ascoltarsi e comprendersi, i rimpianti e gli errori perdono peso e si relativizzano affinché a rimanere siano soltanto i legami invisibili tra gli esseri umani. I film di Shyamalan, umano come pochissimi altri registi, non raccontano il terrore della solitudine ma il conforto e l'abbraccio dell'altro.
È questa temporalità aliena che riesce a condensare il segreto dell'esistenza, a svelarne il funzionamento meccanico ma, soprattutto, a mostrare il senso della vita e dello scorrere delle cose. Anche su un'isola di sperimentazione drammaturgica, Shyamalan cerca sempre un punto di fuga, un vizio di forma che consente alla maglia di allargarsi, una possibile via di uscita che riesca a forzare le nostre gabbia mentali ed emotive. È nello scorrere delle cose che il nucleo familiare supera le incomprensioni o, quanto meno, le comprende e le accetta, e si riscopre unito nonostante la stanchezza. Perché a volte, per salvare una vita intera, basterebbe semplicemente mantenere la leggerezza e uno sguardo infantile sulle cose, mantenendo in vita, al di là delle ferite e dei traumi, la parte più pura della nostra anima.
(La recensione del film "
Old" è di
Matteo Marescalco)
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