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Old Boy recensione] - "Il film che avrei voluto fare" affermava Quentin nel 2004, dinanzi al Grand Prix Speciale a Cannes "Oldboy" di Park Chan-Wook, consacrato ben presto come vera e propria pellicola di culto del cinema asiatico. Nel 2013 Spike Lee, regista ben noto per la sua propensione alla provocazione e alla sfida, sembra cogliere alla lettera le parole di Tarantino riproponendoci la controversa trama di Oldboy, trasposta in contesto USA. Il plot ha come protagonista Joe Doucett (Josh Brolin), un uomo abbastanza comune, salvo qualche problema di alcolismo e di assenteismo dai doveri di padre e marito, che una notte viene misteriosamente rapito e rinchiuso in una fittizia stanza di motel. Durante l'angosciante prigionia l'unico contatto col mondo esterno sarà un televisore, da cui apprenderà tragicamente dello stupro e dell'assassinio della moglie, per i quali sarà tra l'altro ingiustamente ritenuto colpevole. Dopo 20 anni di agonia verrà inspiegabilmente liberato, per poi comprendere di trovarsi semplicemente in una cella più grande: il suo nemico è ancora lì ad attenderlo e ossessionarlo, il gioco è appena iniziato e in ballo c'è la vita di sua figlia. La sfida sarà risalire all'identità del mandante del sequestro e capirne il movente, per poi finalmente portare a termine l'opprimente desiderio covato in quei terribili anni di isolamento: la vendetta. Sarà un percorso tortuoso per Joe, finché, cercando a ritroso nella propria memoria, tirerà finalmente a galla verità rimosse dalla propria coscienza. Adesso, nonostante le insistenti precisazioni di Lee riguardo al fatto che non si tratti di un remake del film coreano, bensì di una reinterpretazione del manga originario di Tsuchiya e Minegishi, risulta pressoché impossibile astenersi dal fare paragoni. Benché la sceneggiatura di Mark Protosevich (Io sono leggenda) cerchi di portare il dovuto rispetto all'originale non apportando sostanziali modifiche agli assunti di partenza, uno dei punti a sfavore risiede nella caratterizzazione del protagonista, che, presentatoci nei primi minuti iniziali quasi fosse l'uomo peggiore sulla faccia della terra, intraprende durante l'isolamento un cammino di redenzione (esternatoci anche attraverso le lettere che scrive alla figlia) che lo porta a trasformarsi in una sorta di eroe senza macchia e senza paura, cambiamento interiore reso in maniera troppo radicale per risultare credibile. Laddove, nell'opera di Chan-Wook, lo spettatore veniva reso partecipe del mondo interiore e del dolore straziante di Dae-Su attraverso gli intimi silenzi, la straordinaria mimica facciale dell'attore protagonista e i suoi gesti esasperati (come la tormentata bramosità nel divorare un polpo vivo), qui si finisce per conferire ai moti dell'animo un impianto didascalico, in cui le spiegazioni si sostituiscono alla possibilità di empatizzare con le emozioni. La dirompente fisicità di Brolin d'altronde, nonostante ci riservi una discreta interpretazione, non aiuta affatto a concentrarsi sulla fragilità di quello che dovrebbe essere un uomo comune reso estremamente forte e violento solamente dall'ossessione di vendicare il male subito. Anche il legame che nascerà con la protagonista femminile, Marie (Elizabeth Olsen), sembra perdere in alchimia e fascino ciò che acquista in razionalità. Ma il personaggio che più ne risente è senza dubbio l'antagonista (Sharlto Copley), che abbandona quei connotati tragici propri di una certa, seppur decisamente perversa e soggettiva, nobiltà e levatura d'animo, prendendo una piega molto più caricaturale, alla stregua di un villain da fumetto sui super-eroi. Certamente sul piano strettamente visivo è un film ben diretto e il tocco di un regista del calibro di Lee si percepisce, tuttavia la frenesia nel dare ritmo e tensione alle vicende narrate confluisce in un prodotto più strettamente action, in perfetto american style, che drammatico (Un esempio su tutti: la scena del combattimento nel corridoio). I momenti di violenza diventano molto più splatter e volutamente esibiti, annientando totalmente il senso di disperazione lacerante, di lotta alla sopravvivenza motivata dal dolore e dalla sete di rivalsa. E purtroppo non basta la presenza di un attore quale L. Jackson a rendere la pellicola memorabile. Nel finale poi, nel momento in cui viene rivelata l'orribile verità, ci sono dei cambiamenti nella dinamica degli eventi, che rende meno plausibile e molto più folle e ingiustificata le crudeltà del nemico di Joe, quando proprio in quella sequenza si toccavano vertici altissimi di pathos, in una sorta di capovolgimento della realtà che rimetteva in discussione l'intero concetto di vendetta e di morale, di buono e cattivo.. Un momento altamente drammatico che, in questo caso, viene sbrigativamente risolto in modo totalmente insoddisfacente. Per di più la scelta di concludere il film facendo muovere il protagonista nella direzione "moralmente più appropriata" rispetto alla situazione di cui prende coscienza, non fa altro che togliere ulteriormente alla poesia, al non-detto, alla domande che ci poneva la versione coreana. Al contrario qui, allo spettatore vengono date fin troppe risposte, probabilmente non richieste. Dopo il precedente "Miracolo a Sant'anna" e questo remake di Oldboy (perché è inutile negarlo, si tratta di un remake) sembra proprio che ultimamente Spike Lee non faccia più la cosa giusta.
(La recensione del film "
Old Boy" è di
Sarah Farmad)
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