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IERI OGGI E...

NOSFERATU di Friedrich Wilhelm Murnau

di Francesca Lenzi
Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi CAPOLAVORI del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per capire se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno presi in esame solo opere che all'epoca venivano considerati CAPOLAVORI per capire, analizzando il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere, circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali o, ETERNI anche OGGI e DOMANI.
"Nosferatu. Non risuona a te questo nome come il richiamo notturno della civetta? Guardati dal pronunciarlo, se non vuoi che le immagini della vita impallidiscano come larve, che sogni spettrali si levino dal cuore e si nutrano del tuo sangue". Il 5 marzo del 1922, "Nosferatu" di Murnau viene per la prima volta proiettato in una sala cinematografica. Non basta aver cambiato nomi e ambienti al regista tedesco: gli eredi di Bram Stoker gli fanno causa - vincendola - accusando il film di un aspetto sin troppo simile, per apparire casuale, al testo scritto dal proprio avo. La pena prevedeva la distruzione di tutte le copie esistenti della pellicola. Ne fu salvato un esemplare. uno solo, grazie al quale è stato possibile godere, negli anni, del capolavoro senza tempo di "Nosferatu", capostipite, assieme al "Gabinetto del Dottor Calicari" del genere horror. Se l'opera di Robert Wiene rappresenta il sintomo più eloquente del linguaggio artistico espressionista, attraverso la rivelazione di uno spazio, volutamente non naturalistico, carico di riferimenti scenografici di tipo teatrale, il lungometraggio di Murnau equivale alla massima dichiarazione della natura filmica della categoria del terrore. Paragonato ad esso, il successivo "Dracula" di Tod Browing, del 1931, assume un profilo di banalità e incompiutezza evidenti, mostrando un vampiro dalla presenza debole e scialba, lontana dalla rivelazione poderosa e sconcertante del Conte Orlok. Signore di un castello aggrappato sui monti Carpazi, possiede l'immagine apertamente significativa del "mostro", alieno dalla normalità, sia fisica che comportamentale. Assimilato alla pianta carnivora che ghermisce la propria preda, Orlok esibisce una potenza espressiva ineguagliabile: l'oblunga figura, coperta di vesti corvine, ha lineamenti bruscamente spigolosi, innaturali, quasi fosse emanazione evasiva di un corpo fuggito via da troppo tempo. La testa triangolare, incorniciata tra orecchie ferine, comprende il naso adunco, l'inflessibile bocca che racchiude denti aguzzi e animaleschi, un paio d'occhi di uno spaventoso bianco cadaverico, marcato da un alone livido . Le orbite, esageratamente esposte, brillano di luce terrea, roteando minacciose contro la vittima, ormai avvinta dallo sguardo agghiacciante. E dalla persona, maestosamente definita, si muovono magre e lunghissime braccia, all'estremità delle quali, perennemente schiuse, vivono le mani: grandi, ossute, incrudelite dalla nodosità, conclusa in artigli bestiali, lesti ad incombere sulla preda. Le movenze sono quelle di uno spettro che si aggira silenzioso, finalmente affrancato dall'ingombro di un corpo da trascinare. Dal punto di vista narrativo, il film fa leva, quale elemento fondamentale della caratteristica visiva sulla fotografia (Günther Krampf e Fritz Arno Wagner): il bianco e nero, fortemente accentuati, definiscono i perimetri e saturano le masse, risultando una sorta di luccichio vitale diffuso su ogni porzione ambientale. Il cielo, ora scuro, ora fulgido, compie capricci celesti, creando forme voluminose in incessante divenire. In particolare sono due le scene più significative, e maggiormente efficaci: la sequenza del mare, con una spenta Ellen, immersa in uno sterminato campo di sabbia e acqua, di tanto in tanto, corrotto, nel proprio immacolato essere, solo dalla nera silhouette di croci improvvisate. Il forte vento, scuote animosamente, dando la percettibile impressione di un effettivo turbamento di tipo materiale. L'altra scena, coincide con la rivelazione del Conte Orlok sul muro lungo le scale, quando si trova a raggiungere Ellen, rassegnata al proprio destino di sacrificio: la visione del personaggio è negata, in favore dell'ombra distorta, disegnata sulla parete, quasi fosse un orrido e inquietante gioco cinese. L'essenza pittorica raggiunge il massimo livello, identificandosi nella resa dimensionale di una linea tratteggiata su un foglio di carta, ancor più scioccante proprio in riferimento ad una natura ipoteticamente immobile come quella della raffigurazione grafica. Il senso fiabesco del racconto è dato pure dal libro che Hutter scopre nella stanza dove alloggia, nel quale si svela, alla maniera di unica fonte di salvezza, "una donna di cuore puro che faccia dimenticare al vampiro di ritirarsi al primo canto del gallo. Essa, senza essere costretta, gli offrirà il proprio sangue". È evidente il respiro favoloso che trasmette un simile scritto, una specie di antidoto all'incantesimo delle streghe, tanto conosciuto nelle storie di fantasia. Anche il finale assume una connotazione poetica, pur nella crudeltà del momento: il profilo del Conte, esposto alla luce, svanisce senza lasciar traccia: "Il Maestro è morto!"; è morto l'indimenticabile "cattivo" di uno spettacolo, gioia per gli occhi di quanti vi riconoscono inconfutabili le tracce dell'opera d'arte indubitabile, al di là dei limiti temporali.

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