di M. Marescalco
[
Midsommar recensione] - La luce è il necessario elemento speculare del buio, la cui profondità caratterizza ogni horror d'atmosfera che si rispetti. Eppure, questo secondo film di Ari Aster dopo Hereditary rinuncia completamente al buio e sceglie di costruire una serie di tableau vivant en plein air. Midsommar, quindi, abbatte uno dei tradizionali luoghi comuni del cinema horror. In che modo si può costruire un sentimento di paura davvero efficace rinunciando all'oscurità dell'ignoto? Creando un contrappunto totale tra interiorità dei personaggi, una melma buia in cui sprofondare, e la ricchezza cromatica del villaggio svedese in cui è ambientato il film.
Eppure, in Midsommar tutto ha inizio dal buio di una notte tempestosa in cui Dani è costretta ad affrontare un trauma che la condizionerà per sempre: la morte dei genitori e della sorella. Da quel momento in poi, la ragazza non sarà più la stessa e a mutare sarà anche il rapporto con il suo fidanzato, incapace di dirle che, probabilmente, è meglio lasciarsi. Christian è un ricercatore universitario e vive con altri colleghi, con cui sta progettando di recarsi in un villaggio svedese per completare la tesi di dottorato in Antropologia. Ad unirsi al gruppo e a partire con la compagnia sarà pure Dani, sopraffatta dai sensi di colpa e da un dolore silenzioso e profondo che rende sempre più incerta la sua presa sul reale. Tra funghi allucinogeni, trip visivi e stranissimi riti pagani, gli amici scopriranno un mondo speculare al loro, caratterizzato da particolari usanze rurali, religiose e tribali. Sarà in questo contesto che il percorso psicotico dei personaggi raggiungerà un punto di non ritorno e che i loro legami saranno messi pericolosamente alla prova.
A differenza del suo esordio, costruito su una rigorosa trama e su un'architettura visiva che tutto incasella e cataloga, Midsommar detona ogni spinta centrifuga e ricerca l'espressione piuttosto che il racconto, sebbene ogni singolo personaggio sia ben delineato ed il suo percorso di sviluppo sia coerente. Aster non cerca la compiutezza ma il gesto artistico. Il suo obiettivo è costruire un contrasto tra gli americani spocchiosi che provano a dominare ragionevolmente le loro emozioni ed gli abitanti del villaggio con il loro flusso di coscienza del folklore svedese. Il sole non tramonta mai in questo luogo lisergico che finisce per mettere più volte a dura prova lo sguardo dello spettatore, inorridito davanti all'orrore vissuto da Dani. L'intero percorso affrontato dalla protagonista è orientato a far emergere il suo rimosso, i suoi traumi indicibili ma vissuti in silenzio. Soltanto evitando di scontrarsi con il dolore e con le proprie paure ma accettandole placidamente, può avvenire una compenetrazione con la natura.
Il film di Aster si prende tutto il tempo necessario (la durata è di ben 2 ore e mezza) per soggiogare lo spettatore e per consentire l'evoluzione dei personaggi, evitando di fornire loro vie di uscita logiche ma costruendo un percorso emotivo privo di fuga. E in un cinema horror studiato a tavolino per far paura ed inquietare lo spettatore, Midsommar rappresenta una vetta di libertà assoluta, un gesto artistico privo di fronzoli e di rassicurazioni, un gorgo di oscurità in cui il buio non è mai mostrato ma soltanto suggerito.
(La recensione del film "
Midsommar" è di
Matteo Marescalco)
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