La recensione del film Mank

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MANK - RECENSIONE

Mank recensione
Recensione

di Mirko Nottoli
[***] - Se vi dicessero Mankiewicz, la maggior parte di voi penserebbe probabilmente a Joseph Mankiewicz, regista di capolavori come Eva contro Eva, Giulio Cesare, Bulli e pupe, Un americano tranquillo, Improvvisamente l'estate scorsa o Cleopatra. Meno coloro ai quali verrebbe in mente Herman, fratello maggiore di Joseph, sceneggiatore durante l'età d'oro di Hollywood quando non era abitudine che gli sceneggiatori fossero accreditati nella costituzione del film, considerato mero lavoro d' ufficio volto a soddisfare le esigenze del produttore che un mestiere autoriale ad alto tasso di artisticità, come giustamente sarà poi. Hermann Mankiewicz infatti, dopo quasi trent'anni di onorata carriera al soldo dei più importanti Studios, Paramount, Warner, Metro Goldwin Meyer, resterà famoso ai posteri solo per aver scritto Quarto potere, il che non è poco, considerando che è il film più importante dell'universo mondo, ma nemmeno troppo se si considera una vita intera. Eppure il contratto prevedeva che il nome di Mankiewicz non avrebbe dovuto comparire nemmeno stavolta, lasciando il merito tutto all'enfant prodige dello showbiz americano, Orson Welles che, giova non dimenticarlo, all'epoca di Quarto potere aveva appena 24 anni e un contratto con la RKO che gli consentiva la realizzazione di un film all'anno nella più assoluta autonomia e libertà espressiva. Fu lo stesso Welles a concedere al vecchio Herman, depresso e alcolizzato, immobilizzato a letto con una gamba rotta a causa di un incidente, in un momento di confidenze a cuore aperto, di firmare insieme a lui la sceneggiatura del film. Da lì la ridda di controversie note sul chi sia il reale artefice del successo di Quarto potere, dibattito sterile oltre misura perchè ben sappiamo come Hollywood non amò Welles e procedette sistematicamente a delegittimarlo e, in ogni caso, il sapersi scegliere dei bravi collaboratori non è forse un indiscusso merito? Quello che interessa a Fincher, in Mank, tuttavia non è come fu realizzato Quarto potere (sull'argomento semmai consigliamo il libro di Robert Carringer, "Come Welles ha realizzato Quarto potere), né tantomeno stabilire in percentuale di chi sia il merito e nemmeno mettere in scena la biografia di un vecchio scrittore quanto la rievocazione storica e d'ambiente (se si considera anche Mindhunter si capisce come questa sia una delle priorità dell'opera recente del regista), l'indagine del processo creativo di un autore che ormai non ha più nulla da perdere e si gioca tutto nell'ultima chance che il destino gli ha riservato, il comprendere a quanti compromessi un artista fallito è disposto a scendere prima di esplodere e gettare quella maschera di cinismo che si era imposto. Girato, come si dice, in un "suntuoso" bianco e nero che ricorda volutamente la fotografia di Greg Toland, in Mank incontriamo una lunga galleria di nomi che hanno fatto la grandezza di Hollywoodland, da David O. Selznick a Irving Thalberg, da Louis Meyer fino ovviamente a William Randolph Hearst e la di lui giovane compagna che diventeranno nella finzione scenica i protagonisti di Citizan Kane; e ancora le elezioni del 1934 tra il repubblicano Merrian e il democratico Sinclair, l'ombra lunga del nazismo, Orson Wells visto però solo in controluce. Nei panni di Mank, Gary Oldman che offre un'altra istrionica interpretazione mimetica "alla Churchill". Prodotto Netflix, ritroveremo Mank quasi sicuramente in corsa per gli Oscar dove dovrà vedersela, azzardiamo, con un altro prodotto Netflix, Il processo ai Chicago 7. In epoca di pandemia, Netflix uber alles. (La recensione del film "Mank" è di Mirko Nottoli)

[****] Un film in bianco e nero oggi potrebbe essere sinonimo di vecchio e noioso. David Fincher, con una scelta soprattutto estetica che ha riportato sul grande schermo una sofisticata ricerca espressiva, ha voluto utilizzare proprio il bianco e nero per rendere al massimo l'atmosfera del suo "Mank". La realizzazione di questo film che punta dritto all'Oscar è stata possibile grazie alla piattaforma di Netflix. La piattaforma assicura budget, visibilità e, cosa importante, permette di ambire a premi eccellenti, garantendo al film la fruizione di un'ampia platea. Un'occasione unica che Fincher non si è lasciato scappare per mettere finalmente sul grande schermo il lavoro originale di suo padre Jack. California fine anni '30, lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, alcolizzato e giocatore incallito, vittima di un incidente automobilistico, si trasferisce in una casa nel deserto del Mojave. Mankiewicz, infermo e assistito da un'infermiera ed una dattilografa, deve scrivere una sceneggiatura in 60 giorni commissionata dal talentuoso, giovane attore di teatro Orson Welles. Mankiewicz, detto Mank, sfoglia senza remore ricordi del passato, di quando varcava la soglia delle writers room della Paramount e poi della Metro-Goldwyn-Mayer, spesso ospite del potente William Randolph Hearst ed anche dello stesso Louis Mayer. Correva l'anno 1934 e non mancavano momenti turbolenti per questioni politiche. L'America era presa dall'elezione dell'allora governatore della California, ed il candidato democratico, Upton Sinclair, del quale Mank auspicava la vittoria, era mal visto da Mayer e Hearst. Comunque sia, in condizioni fisiche disagevoli per l'immobilità dovuta alla gamba ingessata, Mank scrive la sceneggiatura di "Quarto potere" che si rivelerà un film inquietante per contenuti e tecnica. Ma il "Mank" di Fincher differisce nella sostanza da "Quarto potere" e si rivela una realtà pensata e filtrata dalla mano del suo sceneggiatore, una correlazione d'interessi di potere all'interno dei grandi Studio-System che risentivano in modo eclatante degli stessi interessi politici. Lungi dall'essere la biografia di Herman J. Mankiewicz, il film del regista statunitense è la frantumazione e la ricomposizione dei fatti che definirono la sceneggiatura di "Quarto Potere", diretto da Orson Wells. Tra flash back, battute fulminanti e sorrisi sarcastici, "Mank" rappresenta un mondo in cui si svolge tutta la storia, uno spazio-tempo in cui sono collocati tutti gli eventi, una costruzione in un certo senso paradossale, una condizione di lettura che la lettura stessa costruisce, un presupposto ed alla fine un risultato dell'intera visione del film. Qui sta tutta la grandezza di "Mank", nell'aver saputo dar voce, nella nuova chiave cinematografica dello streaming, alla geometria immaginaria di un passato ricomposto in una sorta di sigla stilistica, nella creazione di personaggi, di ambienti, di situazioni mortificanti fortemente incisive e spettacolarmente attraenti, in quel bianco e nero della fotografia di Erik Messerschmidt, che esalta l'effetto fotografico della pellicola. Il linguaggio cinematografico di Fincher non è mai banale e corrivo, ed il suo cinema rivela sempre una necessità vitale, nella poetica del piano sequenza e della profondità di campo, tanto amata dallo stesso Orson Wells in "Quarto potere". Tutti sono protagonisti in questo film ed affiancano un grande Gary Oldman che si supera nella sua geniale performance, in preda ai fumi dell'alcool, che pare gli conferiscano una sapiente e consapevole lucidità, anche in particolari scenici che lo vedono insieme ad una dulcinea Amanda Seyfried. Tutto in "Mank" è racconto di un'epoca che avverte l'alito del cambiamento che si riflette in modo esemplare e affascinante sui suoi strumenti di narrazione e rappresentazione cinematografica, tanto da farne un capolavoro di classicismo cinematografico. (La recensione del film "Mank" è di Rosalinda Gaudiano)
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