di R. Baldassarre
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Mad Max Fury Road recensione] - Una volta c'era il Remake, adesso c'è il Reboot, che sottolinea meglio l'aspetto economico-industriale proprio del cinema. Ma ambedue le forme hanno in comune il riuscir a far storcere il naso a orde di fans, che appena vengono a sapere di un tentativo del Moloch industriale di toccare un "classico", gridano: "Sacrilegio!" . Esclamazioni adirate che spesse volte, dopo la visione del teaser o del trailer della nuova versione si quietano e cominciano a adorarla. Dall'inizio del nuovo millennio si sono avvicendati sul grande schermo molti Reboot, di cui il più noto e autoriale è il franchise con protagonista L'uomo pipistrello. Adesso è il turno di un altro super cult che ha svezzato e lucidato pupille di schiere di cinefili; torna dopo trenta anni, da quel pessimistico terzo capitolo che era Mad Max oltre la sfera del tuono, l'eroe della strada di quel crudo futuro post-atomico. Quella lontanissima trilogia diede fama e gloria all'australiano Mel Gibson e credito yankee al regista George Miller; e diede anche i notori quindici minuti di gloria al cinema australiano. La fortunata e visionaria serie di Mad Max diede anche origine, assieme a 1997: fuga da New York, ad un proficuo sottogenere denominato appunto Post-Atomico. I migliori – e peggiori – succedanei vennero realizzati dai nostri geniali artigiani. Quindi, dopo 30 anni, ecco che viene ripreso quel solitario eroe e raccontato nuovamente. Sparisce Mel Gibson, ormai stella cadente del firmamento hollywoodiano, ma ritorna George Miller, che in questi sei lustri si era smarrito tra opere marcatamente hollywoodiane (Le streghe di Eastwick), opere personali (L'olio di Lorenzo) e favole funzionali ma troppo caramellate (Babe va in città e Happy Feet). Questo regista australiano, dalla fisionomia facciale alla Wenders, accetta la sfida (probabilmente anche per motivi alimentari) e affronta se stesso, il giovane regista di allora che dal nulla creò un cult e un genere. Mad Max: Fury Road è allo stesso tempo prodotto cinematografico del nostro tempo, con l'azione spinta all'eccesso, con uno stile e con umori da Graphic Novel; ma allo stesso tempo pellicola vintage, con una idea di spettacolo legata al passato, in cui eroi e antagonisti mantengono una stilla di umano. Il budget è aumentato, e si vede ampiamente, però rispetto a blockbuster coevi, che ammantano tutta la storia di effetti speciali, Mad Max: Fury Road ha ancora quel sapore artigianale. Auto, inseguimenti, lotte, esplosioni, dune e amputazioni umane (tranne quella della Theron), sono veri, come lo sputo di Furiosa sulla faccia di Nux. E con questo enorme plafond economico a disposizione Miller può dare libero sfogo alla sua visionarietà, in cui l'iperbolico eccesso diviene quint'essenza artistica, ma senza (s)cadere nel tronfio. L'inesperienza registica di trentacinque anni fa, che realizzava opere naif, è diventata ora esperienza collaudata che riesce a gestire egregiamente l'opera, ma, sottolineandolo nuovamente, restando connesso con quell'idea di cinema genuina.
La fotografia ruvida della prima saga è sostituita da una luce levigata e pulita, ma che dietro questa lucentezza si insinua l'inquietudine. Il veterano direttore della fotografia John Seale (Witness, Rain Man, L'attimo fuggente ecc.) riesce a catturare l'essenza di quei desolati e sterminati luoghi, utilizzando solamente due accentuati colori: l'acre giallo per il torrido deserto, e un plumbeo blu per le paludosi zone disabitate. Mad Max: Fury Road punta su una trama lineare, dritta, come il "tragitto" dell'autocisterna, ma questo ritto itinerario è fitto di tortuosi e roboanti attacchi. La sceneggiatura di Miller, Nick Lathouris, Brendan McCarthy vuole essere semplice nello svolgersi, ma questa scelta permette loro di poter poi innestarvi l'azione pura. La psicologia dei personaggi si muove in questo turbine di movimento e affiora senza risultare d'accatto. La fisionomia psichica di Furiosa è demandata al braccio amputato e al suo gelido sguardo (che si scioglie in lacrime solo con la morte della Splendida Angharad). La psicologia di Mad Max, invece, è demandata alla trilogia del passato. Mad Max: Fury Road è un blockbuster lontano dalla usuale produzione hollywodiana. Una lontananza non solamente geografica, ma soprattutto nel riuscire a creare visivamente un apologo di carne e sangue, che permane dentro – lo sguardo e il cuore – anche dopo la visione. Se nel lontano terzo episodio la fiducia per un futuro migliore era lasciata agli sguardi dei bambini, qui la speranza è affidata (in modo ferreriano) al femmenino. Donne di bianco vestite che possono salvare il mondo, fecondando una nuova umanità e nuovi terreni. Un lascito alle donne sottolineato anche da come il personaggio Mad Max sembri solo una "spalla" di Furiosa, vera – e forse futura, come mostrerebbe il poster – eroina di questo nuovo franchise.
(La recensione del film "
Mad Max Fury Road" è di
Roberto Baldassarre)
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