La recensione del film Locke

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LOCKE - RECENSIONE

Locke recensione
Recensione

di Clara Gipponi
[Locke recensione] - Steven Knight (Piccoli Affari Sporchi) questa volta ha alzato il tiro: dirige lui stesso un film basato su un copione scritto di suo pungo. Una sceneggiatura coraggiosa che vede un solo protagonista recitare per un'ora e mezza in una unità di tempo e spazio, ma quando lo spettatore non è tentato di sbirciare l'orologio e sfugge all'ossessivo controllo del suo smartphone, si può dire che Steven ha vinto la scommessa con se stesso e con il pubblico. Si serve di un solo volto, quello di Tom Hardy per Ivan Locke, che filmato da tre telecamere a bordo della sua BMW, in una notte percorre l'autostrada da Birmingham a Londra. Dall'inizio alla fine si alternano chiamate in entrata e in uscita, non importa se gli altri protagonisti non sono in scena. L'accurato montaggio e la spontaneità dei dialoghi realizzano il punto di contatto tra dinamismo visivo del cinema e quello spazio aperto all'immaginazione proprio del palcoscenico di un teatro. C'è solo la strada. Scorrono scariche di adrenalina che, quasi a seguire il tratteggio bianco dell'asfalto, a volte si allentano ma solo per un attimo, la tensione è pronta a trasalire alla prossima curva. A ogni chilometro Ivan rischia di scardinare tutti i tasselli della sua esistenza: la fedeltà agli affetti, la lealtà verso il capo e persino la stima dei dipendenti. Ma Ivan Locke ha calibrato il peso di ogni perdita e ha preso la sua decisione. Entro quella notte dovrà varcare la soglia di un ospedale, baluardo della fede a una promessa che non avrebbe mai voluto stringere. Prima telefonata. Sul display si legge Bentham, è la voce di una donna che ha bisogno di lui e a poco tempo a disposizione. I nomi della rubrica scorrono veloci: Home. Bastano tre parole pronunciate da un ragazzino: partita, birre e salsicce. In un attimo si ha già lo scenario di casa, lo stanno aspettando, ma Ivan non potrà raggiungerli. Il telefono squilla di nuovo: il più fidato tra i suoi operai sta entrando nel panico, la più importante colata di cemento della sua carriera dovrà essere eseguita all'alba senza la supervisione del suo capocantiere, che contro ogni logica lo guiderà con il solo utilizzo della voce. E poi c'è un altro interlocutore, il più importante, quello che non lo chiama perché è costantemente alle sue spalle, invisibile come un ricordo, eppure più reale di tutte le sue feroci paure: suo padre o meglio quell'uomo che adesso non c'è più e che per Ivan non c'è mai stato. Questo Locke non commetterà gli stessi errori di chi l'ha generato e poi defraudato dell'infanzia con l'assenza, non può succedere a lui che ha colato un cemento solido di valori per stratificare un'esistenza di validi principi. Locke è senza dubbio un thriller, ma la tensione non è fine a se stessa. Viene da chiedersi: fino a che punto si può comprendere il coraggio di quest'uomo? È solo il terrore di rimanere nello sporco selciato tracciato di chi lo ha preceduto che erige Ivan a modello di coerenza? Il film non era in concorso Venezia, forse uno smalto così lucido avrebbe offuscato il pallido successo di altre pellicole che, abbagliate dal luccichio di una statuetta, sarebbero sbiadite prima ancora di essere proiettate. (La recensione del film "Locke" è di Clara Gipponi)
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