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Lo Hobbit La desolazione di Smaug recensione] - Peter Jackson come George Lucas. Uno vittima di Guerre Stellari, talmente ossessionato che per tutta la vita non fa più niente che non riguardi Guerre Stellari e oggi, a settant'anni suonati, ancora se ne sta a giocare con astronavine a raggi laser. Vittima de Il Signore degli Anelli l'altro, regista tra i più sopravvalutati in circolazione, passato da enfant terrible del cinema indipendente a re del blockbuster hollywoodiano con tanto di immeritata consacrazione agli Oscar. Sul set de Il Signore degli anelli i critici ne cantavano le lodi per la totale immersione nel mondo tolkeniano, grasso, barba lunga, capelli arruffati, ce lo descrivevano quasi come se si stesse trasformando lui stesso in un hobbit. Chissà la delusione nel vederlo poi con venti chili di meno presentarsi in smoking sul red carpet in perfetta forma (ora i chili sono ritornati ma da qui ai prossimi oscar ci sta un'altra dieta). Tre film da tre ore ciascuno, un film fiume di nove estenuanti ore di durata, 11 oscar (come Ben Hur e Titanic, una bestemmia!) a quanto pare non gli hanno tolto la voglia di orchi, elfi, nani e stregoni dai nomi stupidi. Del resto Lo Hobbit era già lì, pronto, le scenografie c'erano, il make-up idem, Ian McKellen probabilmente non si è mai svestito dei panni di Gandalf. Aggiungiamoci anche che la creatività non attraversava un momento felice (ricordiamo che in mezzo c'è stato King Kong su cui stenderemmo un velo pietoso), cosa di più facile quindi che prendere l'altro romanzo di Tolkien, dilatarlo, e servire una seconda trilogia fotocopia per bissare il successo della precedente? E' l'antefatto per cui non c'è Frodo ma Bilbo che ha appena trovato l'anello, c'è Gandalf che è ancora grigio e, considerato che l'obiettivo è rifare Il Signore degli anelli, ritroviamo anche Legolas, anche se non ci dovrebbe essere, tanto gli elfi vivono in eterno per cui lo si può presentare tale e quale senza neppure il bisogno di ringiovanirlo. La dinamica è sempre la stessa ed è di una semplicità disarmante: un percorso a tappe pieno di ostacoli con i nostri perennemente di corsa inseguiti da qualcuno. Là c'era la compagnia dell'anello guidata da Gandalf, qui c'è una compagnia di nani (tra cui il padre di Gimli) guidata da Gandalf, là c'era Gandalf che ad un certo punto se ne andava per i fatti suoi a cercare non si è mai capito cosa, qua c'è Gandalf che ad un certo punto se ne va per i fatti suoi a cercare non si capisce cosa. Lo stesso dicasi per i motori della vicenda: l'esercito del bene contro l'esercito del male, un re che deve riconquistare il suo regno e per farlo deve trafugare un gioiello ad un drago che dorme sotto una montagna incantata, in un misto di Shrek e gli Argonauti. Gli orchi sono brutti, grugniscono ma hanno degli addominali da far invidia a Lou Ferrigno. Orlando Bloom saltella come un grillo e brilla per le lenti a contatto colorate. C'è anche Scialpi nel ruolo di Re degli Elfi. Insomma la grana è grossa concorde al target infantile (coloro che hanno letto e amato Tolkien da bambini). In questo secondo capitolo però Lo hobbit riesce a trovare una coerenza strutturale che mancava a tutto il Signore degli Anelli, zeppo di andate e ritorni ed eterne circonvoluzioni su se stesso; Jackson riduce il numero delle sequenze d'azione e dei combattimenti, evita di terminare ogni sottotrama in una battaglia tanto infinita quanto noiosa e mai risolutiva, per concentrarsi meglio sui personaggi (su tutti lo stesso Bilbo ben interpretato da Martin Freeman che si mangia Elijah Wood) e consentire alla vicenda di evolversi in un crescendo progressivo e inesorabile in cui possono risuonare davvero echi di leggende, tragedia ed epico eroismo, laddove ne Il Signore degli Anelli erano molto gridati e poco fattivi. Per ricrederci abbiamo ancora una puntata dopo di che sapremo se il buon Jackson merita una parziale rivalutazione e soprattutto se saprà sopravvivere anche senza Tolkien a fargli da materasso.
(La recensione del film "
Lo Hobbit La desolazione di Smaug" è di
Mirko Nottoli)
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