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Lion recensione] - Stazione di Calcutta. Un urlo disperato cerca di squarciare il già potente frastuono nell'ora di punta; è un urlo che cerca di farsi sentire, di trovare un proprio spazio tra le voci di gente in corsa, o viaggiatori troppo indaffarati per concentrarsi sulle richieste pronunciate a pieni polmoni da un bambino smarrito. "Guddu" urla il piccolo Saroo, ma nulla e nessuno sembra capirlo o abbracciare il suo grido di aiuto. "Guddu" ripete la tremante vocina rotta dal pianto. Ma ancora nulla. Il piccolo Saroo, giocando a fare il grande insieme al fratello Guddu, si ritrova davvero a crescere in fretta e, nell'arco di un paio di mesi, interpretare il ruolo di adulto nei panni di un bambino. Tutta colpa di una distrazione e di un'esigenza primaria come il sonno, che lo ha portato – complice anche l'innocenza e l'ingenuità tipica di un bambino di cinque anni – di addormentarsi su un treno che piano piano lo ha allontanato dal fratello e da tutta la sua famiglia, conducendolo là, nella grande città, a Calcutta. Per un susseguirsi di strani, quanto rapidi eventi, Saroo verrà liberato dall'inferno della strada e condotto in Australia, dove crescerà curato e amato da una nuova famiglia. Eppure, il bisogno per così tanto tenuto a freno di riscoprire le proprie origini e assodare le proprie radici, comincerà con gli anni lentamente a farsi largo in lui, fino a portarlo a compiere il viaggio che gli cambierà la vita.
Quello che può apparire a primo avviso come il più tipico viaggio dell'eroe, compiuto al fine di risalire alle proprie origini su una spinta di un bisogno primordiale, nascosto latente in ognuno di noi, in realtà è una storia realmente accaduta. Una storia che non poteva non attirare l'interesse del mondo di Hollywood, diventando il film Lion. Compiuto in maniera onesta e sincera, senza cadere troppo nel melenso, o nel facile buonismo, il film di Garth Davis è il tipico film ben confezionato, pronto per far commuovere e allo stesso tempo riflettere i propri spettatori, toccando un problema di richiamo internazionale (il rapimento dei bambini in India), e al contempo smuovendo le giuste corde emotive. Supportata anche da una prova attoriale di forte impatto - elargita da un bambino di soli 5 anni dal nome Sunny Pawar - la prima parte del film colpisce lo spettatore come un macigno, e alla stessa velocità con cui i treni sfrecciano sui binari. L'immagine del piccolo Saroo che guarda il paesaggio che gli corre davanti dalle sbarre delle finestre del treno, è una perfetta allusione a quel senso di prigionia che accompagnerà il piccolo non solo durante il viaggio verso Calcutta, ma anche al suo arrivo nella città stessa. Estraneo in un mondo così grande, così caotico, il piccolo Saroo pare un lillipuziano finito nel mondo dei giganti. La stessa fotografia, giocata su forti contrasti tra tonalità cineree e quasi soffocanti, è una chiara metafora del pellegrinaggio del piccolo in un incubo infernale, nell'attesa che un Virgilio, o una Beatrice, lo venga a salvare, accompagnandolo nel suo cammino verso un nuovo paradiso chiamato Australia.
Dove il film subisce qualche contrattacco emotivo è proprio nella seconda parte. Limitata allo schermo di un computer, la ricerca del proprio paese natale compiuto da un Saroo ormai trentenne (un ottimo Dev Patel) perde di suspense e pathos, rasentando l'insofferenza. Continuamente in bilico tra la scelta di portare avanti le proprie ricerche e la tentazione di mollare tutto, le azioni sommesse di Saroo e l'ostinazione di non ascoltare i consigli della propria fidanzata Lucy (Rooney Mara) sfida continuatamente la pazienza spettatoriale. Per fortuna arriverà il finale a riportare l'equilibrio sia nella vita di Saroo, che a livello filmico, centrando il suo obiettivo primario: portare a casa un ottimo film, commuovendo allo stesso tempo il proprio pubblico.
Certo, la regia di Garth Davis non apporta nulla di nuovo al panorama autoriale hollywoodiano (i flashback, i parallelismi, sono tutte cose già viste, ma qui sapientemente impiegate) ciononostante si tratta di un compendio di scelte registiche che ben si adattano al tipo di film proposto, caricando, ove necessario, l'emozione trainante del momento, o i pensieri e scelte dei propri personaggi.
La strada che compie Saroo, alla fine, è anche quella che noi spettatori facciamo dentro di noi; un'odissea emozionale dove i sentimenti prenderanno il sopravvento e nella quale tutti noi ci sentiamo, seppur per un paio di ore, uomini e donne uguali, figli e fratelli, amanti e amati; ci riconosciamo, cioè, e in egual modo, esseri umani.
(La recensione del film "
Lion" è di
Elisa Torsiello)
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