La recensione del film Le Mans '66

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LE MANS '66 - RECENSIONE

Le Mans '66 recensione
Recensione

di M. Marescalco
[Le Mans '66 recensione] - A pensarci bene, la prima resa dei conti in Le Mans '66 – La grande sfida non poteva che avvenire durante una notte bagnata da una pioggia torrenziale ed illuminata da lampi e fulmini. Dentro la sua Ford GT40, Ken Miles sta per agguantare la sua rivincita, alla ricerca di quel momento in cui la macchina diventa senza peso e tutto svanisce. Nell'ultimo film di James Mangold, lo sguardo di Michael Mann (qui produttore esecutivo) è condensato nelle opposte metodologie che caratterizzano i modi di agire di Enzo Ferrari e di Henry Ford II. Il primo è un artigiano che crede nell'umanizzazione delle macchine; per il secondo, invece, dev'essere l'umano a raggiungere il loro grado di perfezione. Tra loro, si collocano Carroll Shelby e Ken Miles che, proprio per Ford, proveranno a dar vita ad un'auto che riesca ad abbattere il controllo e le regole disumanizzanti dell'ingegneria meccanica, ponendo al centro del loro progetto il corpo umano. Il cuore del film di James Mangold, consiste in uno spiccato interesse per il confronto umano, alla cui base c'è un costante rispecchiamento tra opposti. Da un lato, come già detto, Enzo Ferrari e, dall'altro, Henry Ford II. D'altronde, il film mette anche a confronto due icone del cinema quali Christian Bale e Matt Damon, il mago del trasformismo per eccellenza, in grado di dar vita a performance fisiche puntualmente diverse tra loro, ed il ragazzo della porta accanto, sempre uguale a sé. Nello scontro tra le due coppie di uomini, che incarnano diverse concezioni della vita, si riassume tutto l'universo e la forza mitopoietica di un cinema in grado di riflettere sulla propria mitologia. In Le Mans '66, infatti, la tradizione della struttura classica convive con la costruzione moderna di personaggi irrisolti, le cui traiettorie elettriche vitali sono continuamente minacciate da pericolosi virus. Dopo aver vinto la 24 Ore di Le Mans, Shelby è all'apice del successo ma il suo trionfo è immediatamente seguito da una notizia devastante: i medici, infatti, comunicano all'intrepido texano che, a causa di una grave patologia cardiaca, non potrà mai più prendere parte a corse automobilistiche. Così, l'uomo dalle risorse illimitate si reinventa un lavoro come progettista e venditore di automobili in un magazzino di Venice Beach, insieme ad un team di ingegneri e meccanici di cui fa parte l'irascibile collaudatore Ken Miles, asso del volante ma brusco nei modi, arrogante e poco incline al compromesso. Lo scontro tra i due è tutto giocato sul confronto tra la fisicità dell'azione -di cui è depositario il corpo di Miles- e la presenza delle parole, che, invece, sono l'asso nella manica di Shelby. Con lo sviluppo del racconto, il film inizia a liberarsi dagli stretti legami delle parole e a lasciar parlare le semplici immagini. È il montaggio a farsi carico del compito di inseguire gli scattanti flussi lasciati dalle vetture, come fossero lampi elettrici troppo veloci per essere colti dall'occhio umano. Proprio in questo contesto di velocità impossibile da seguire, lo sguardo di Miles sopravvive più a lungo del solito su un ultimo tramonto, come a voler rivelare la consapevolezza della caducità dell'esistenza. Il prezzo da pagare per il raggiungimento della libertà è altissimo e la fuga è impossibile da raggiungere. Ciò che resta, allora, è soltanto uno sguardo di lancinante sofferenza che relega i corpi romantici negli angoli più estremi e remoti, dissolvendoli nel fuori campo dell'altrove. (La recensione del film "Le Mans '66" è di Matteo Marescalco)
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