La recensione del film Le due vie del destino

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LE DUE VIE DEL DESTINO - RECENSIONE

Le due vie del destino recensione
Recensione

di David Di Benedetti
[Le due vie del destino recensione] - Singapore, 1942. Decine di migliaia di giovani soldati inglesi sono fatti prigionieri di guerra dalle truppe giapponesi che hanno da poco invaso lo Stato. Tra loro c'è Eric Lomax (Jeremy Irvine – Colin Firth), ventunenne appassionato di treni e ferrovie. Spedito a lavorare alla costruzione della famosa Ferrovia della Morte, tra la Tailandia e la Birmania, Eric è testimone di atroci e inimmaginabili sofferenze: uomini costretti a farsi largo a mani nude tra le rocce e la giungla, maltrattati e malnutriti dai comandanti dell'esercito giapponese. Aiutato dai suoi commilitoni, Eric costruisce in segreto una radio per avere notizie sull'andamento della guerra ma, quando viene scoperto, sarà costretto a subire atroci torture dagli aguzzini del Kempeitai, convinti che il giovane abbia comunicato agli Alleati la sua posizione. Sopravvissuto alla guerra e alle torture, l'ex soldato, in viaggio su un treno, conosce Patti (Nicole Kidman), sua futura moglie, che lo aiuterà a scacciare gli indicibili incubi e le assurde allucinazioni che tormentano la sua mente, sconvolta dalle sofferenze provate durante la prigionia. Tratto dall'omonimo romanzo autobiografico di Eric Lomax, morto nel 2012, "Le due vie del destino" è diretto dall'australiano Jonathan Teplitzky, regista del godibilissimo "Burning Man", film dalla struttura complessa e imprevedibile che riusciva a giocare col tempo costruendo un puzzle attorno alla figura della protagonista che tendeva man mano a completarsi col trascorrere dei minuti. Già con "Burning Man" il regista australiano aveva perciò dimostrato una certa abilità nel saper giocare col presente e il passato, mescolando realtà, sogni e ricordi con l'uso di una sceneggiatura ardita e interessante, ma in "Le due vie del destino" la personalità del regista è spesso mascherata da una sceneggiatura troppo legata al romanzo originale (anche se non manca di farsi notare in alcune scene, grazie all'uso del montaggio parallelo). Le scene più credibili e più cariche di pathos sono quelle raccontate dai flashback, dedicate al vissuto del protagonista durante la Seconda Guerra Mondiale e che ricalcano gli stilemi dei classici film di guerra (la mente corre subito al film premio Oscar "Il ponte sul fiume Kwai" di David Lean) e sfruttano l'immedesimazione dello spettatore col protagonista. Il pathos così costruito tende però a perdersi nelle scene ambientate negli anni '80, il "presente" della storia, con un Firth e una Kidman ben diretti ma piuttosto freddi sullo schermo. Freddezza che si riverbera un po' su tutta la pellicola, che resta sì un'opera a tratti interessante, ma non apporta nulla di nuovo al genere. (La recensione del film "Le due vie del destino" è di David Di Benedetti)
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