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La Spia recensione] - E' ben consapevole Anton Corbijn che "per quello che è accaduto a Philip questo lavoro si è caricato di un peso molto più grande di quanto aveva inizialmente". E infatti se non fosse l'ultima interpretazione da protagonista di Philip Seymour Hoffman (God's pocket chissà se lo vedremo mai, almeno in Italia), scomparso d'improvviso il 2 febbraio scorso lasciando tutti impietriti con un enorme buco nello stomaco che ancora non accenna a chiudersi, probabilmente tutto questo interesse intorno a La spia non ci sarebbe. Del resto non può essere altrimenti: ogni giudizio critico sul film è in qualche modo condizionato, falsato, non ammorbidito o più indulgente, ma inevitabilmente influenzato dalla triste realtà dei fatti da cui non si può prescindere. Per cui si guarda La spia e ci si sofferma su ogni fotogramma, si vuole assorbire ogni attimo, succhiare ogni momento, trattenere ogni lampo di luce, come quando una persona cara deve partire e al momento dei saluti non vuoi lasciarla andare e cerchi di rimandare l'addio il più a lungo possibile. E Philip Seymour Hoffman ti ricambia come nessuno oggi sarebbe in grado di fare facendo aumentare ancora di più il rimpianto per la sua perdita. Noi abbiamo avuto da sempre una teoria: che se c'è Philip Seymour Hoffmann in scena, nessun film può essere brutto. Quindi un film che lo vede assoluto protagonista dall'inizio alla fine, in uno dei ruoli, tra l'altro, a lui più congeniali, quello del perdente cinico e amareggiato, fallito, stazzonato e fisicamente in disfacimento (ruolo che, col senno di poi, lascia intravedere il malessere reale), non può sbagliare. E' vero, Philip Seymour Hoffman riempie ogni inquadratura, nobilita ogni primo piano (qualcuno si è mai reso conto di quanto è bello Philip Seymour Hoffman?), regge una scena con un semplice gesto, il modo di fumare, di bere uno scotch, di alzare le sopracciglia. Il meglio di sé lo dà seduto intorno ad un tavolo, a controbattere ruvido con i suoi superiori e a lanciare sguardi d'intesa con Robin Wright. Ciò detto, riacquistato un minimo di obiettività, va considerato che ne La spia, film tratto da un romanzo di John Le Carrè del quale si riscontrano tutti gli stilemi, c'è anche dell'altro. A differenza che in The american, dove non c'era niente al posto giusto, qui Corbijn riesce a delineare ambientazioni e atmosfere in modo efficace, riesce a tratteggiare con incisività i vari personaggi, rievoca, con poche e rarefatte pennellate, il contesto storico post 11 settembre in una Amburgo livida e ossessionata dal terrorismo islamico. Le dinamiche spionistiche restano fumose come tutte le dinamiche spionistiche (ad un certo punto sembra addirittura tutto un gigantesco granchio) ma non è l'azione che interessa a Corbijn quanto gli aspetti esistenziali dell'essere umano, i dilemmi morali dei protagonisti, i loro rapporti psicologici, la descrizione di un mondo parallelo che vive nell'anonimato dentro squallidi quartier generali e scorre sottotraccia lambendo le nostre vite. Ispirandosi forse al recente La talpa, lo fa realizzando un'opera a suo modo avvincente e serrata, sostituendo dialoghi, silenzi e strategie ad esplosioni, sparatorie e inseguimenti; solo una parentesi di stanca verso i tre quarti di film per poi riprendere ritmo nel finale dove non mancheranno i colpi di scena. Dopo di che Philip scende dalla macchina e se ne va. Se ne va lasciandoci lì.
E' il momento che non volevamo che arrivasse mai. Schermo nero, titoli di coda, dedica. Non riusciamo a trattenere una lacrima.
(La recensione del film "
La Spia" è di
Mirko Nottoli)
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