LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO di Carl Theodor Dreyer
di Francesca Lenzi
Scopo di questa rubrica è analizzare i grandi CAPOLAVORI del '900 e quindi di IERI. Contestualizzarli ad OGGI per capire se la prova del TEMPO li ha resi ETERNI o superati. Verranno presi in esame solo opere che all'epoca venivano considerati CAPOLAVORI per capire, analizzando il contenuto e la forma, gli aspetti che li hanno resi tali da essere, circoscritti al loro TEMPO per ovvi motivi sociali o, ETERNI anche OGGI e DOMANI.
"Da questi atti scopriamo una Giovanna d'Arco, non con elmo e corazza, ma semplice e umana, una giovane donna che morì per il suo paese… e noi siamo testimoni d'un dramma impressionante, una giovane donna credente, messa a confronto con un consesso di teologi ottusi e giuristi intransigenti". L'interesse per Giovanna d'Arco inizia a nascere in Carl Theodor Dreyer nel 1924 quando avviene la canonizzazione della martire, tradita dai Borgognoni e arsa viva nella piazza del mercato vecchio di Rouen nel 1431. Il regista si basa sulla trascrizione verbale redatta durante il processo, conservata nella biblioteca della Camera dei deputati di Parigi, per realizzare la versione senza dubbio migliore della storia della pulzella d'Orléans. In effetti l'argomento appare decisamente sfruttato nel corso degli anni, con risultati incerti e differenti interpretazioni, spesso – troppo spesso – di dubbia qualità; in questo senso, forse con un'eccessiva dose di severità, solo Il Processo di Bresson (1962) si mostra in grado di reggere il confronto con Dreyer (seppur in tono minore) dal quale acquisisce l'insegnamento del rigore formale, colto dall'asciutto e distaccato esempio di Ordet (1955). Sospendendo ogni commento sulle altre trasposizioni, talvolta contaminate da trascurabili e febbrili resoconti di combattimenti, le uniche pellicole, realmente riuscite, sono quelle di Dreyer e Bresson che, se da un lato si distinguono nel considerare l'elemento centrale della vicenda (l'uno attento alla parte intima del soggetto, l'altro all'aspetto freddo e imparziale delle dinamiche giudiziarie), concordano nella scelta di indagare i momenti di confronto tra Giovanna e il clero, esibendo le relative conseguenze. Data la premessa, andiamo all'analisi della Passione. Dreyer voleva "cantare il trionfo dell'anima sulla vita" ed è in questa volontà che si origina una modalità espressiva efficace ed innovativa, rifiutando i principi significativi del cinema espressionista: contrariamente a Murnau che con "Nosferatu", solo sei anni prima, produceva la tensione accordando figure e spazi, e a Wiene, geniale architetto di quinte drammatiche e irreali ne "Il Gabinetto del Dottor Caligari", il regista danese decide di optare per una prevalenza di primi piani strettissimi, di frequente al limite del dettaglio. È il volto il principale veicolo di emozionalità, lo strumento attraverso il quale l'emotività interiore dei personaggi trova ragione sullo schermo, ambito usato in termini di intuitiva capacità creativa. I visi vengono ripresi tramite inquadrature quasi mai normalmente frontali, ma lateralmente, con angolazioni ardite e inusuali. I giudici e Giovanna possiedono un opposto sguardo: i primi, dall'alto di una posizione sovrastante, non solo intesa in senso meramente fisico, offendono ripetutamente l'espressione piegata, sottomessa, inferiore della giovane donna. A tale riguardo sarà interessante notare come la magnifica fotografia di Rudolph Maté asseconda perfettamente le intenzioni registiche, definendo diversamente i volti del clero e di Giovanna: la pelle degli accusatori non registra alcun tipo di trucco, evidenziando con precisione ogni piega, ruga o difetto sulla superficie, sorta di incisione funerea strappata all'arte chirurgica del Dürer; il viso della ragazza invece si mostra pieno, limpido, privo di segni, su cui emergono, netti e decisi, la bocca fremente e gli occhi intensi, dai quali affiorano, di tanto in tanto, lacrime devote. La scenografia è ridotta al minimo descrivibile, spoglia, denudata di qualsiasi connotazione che vada oltre il semplice contesto, appena percepita dalle carrellate e dai voli pindarici di un Dreyer al culmine del talento visionario, ispirazione illuminata per Bergman ne "Il Settimo Sigillo" (1956). "La Passione di Giovanna d'Arco" è inoltre un'opera densa di riferimenti simbolici, ulteriore testimonianza di un allestimento narrativo tutt'altro che sbrigativo, nonostante l'austerità della messa in scena. Giovanna scorge sul pavimento il disegno di una croce, risultato "casuale" dell'ombra scaturita dalla finestra, in seguito annullata dal passaggio indifferente di un prete; la tomba scavata allude alla prossima fine della sventurata, mentre la mano non concessa da parte del "misericordioso" ecclesiastico interpreta l'accanimento e l'abbandono della Chiesa. Infine una rapida nota sulla musica, aggiunta nell'edizione del 1952. Sembra persino superfluo discorrere su un elemento di per sé non valutabile, in quanto il giudizio, negativo o positivo che sia, urta impietosamente contro l'originale volontà di Dreyer, perplesso sul reale contributo del sonoro, di non inserire l'apporto melodico in un film talmente immenso ed esauriente dal punto di vista ottico che non necessita di alcun genere di intromissione sensoriale per accrescere la commozione già compresa nelle immagini di un capolavoro senza tempo. Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI