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La danza della realtà recensione] - Dopo più di vent'anni dalla sua ultima opera cinematografica, "Il ladro dell'arcobaleno", il poliedrico artista cileno, Alejandro Jodorosky (cineasta, drammaturgo e fumettista), torna alla ribalta trasponendo sul grande schermo il suo romanzo autobiografico, "La danza della realtà". Presentato nella Quinzaine des realisateur a Cannes 2013 e in arrivo ad Ottobre 2014 nella sale italiane, "La danza della realtà" si impone come Opera-Vita(le) per l'autore, che ripercorre con gli occhi dell'Io – adulto (presenza fisica onnisciente) gli episodi cruciali della sua infanzia a Tocapilla negli anni trenta, e ancor più le vicissitudini dei suoi genitori, ebrei di origine ucraina: da un lato il travaglio ideologico-politico del padre, Jaime, dall'altro la "liricità" tenace della madre Sara.
Un testamento artistico-intellettuale in apparenza molto complesso (se si tiene conto anche del paradosso attoriale, per cui ad interpretare il proprio padre nella finzione filmica è uno dei figli di Jodorosky) ma che in sostanza mira ad instillare un solo, seppur immenso, principio assoluto: possiamo affrancarci dai dolori e dalle ferite più recondite, solo avvalendoci di una consapevole trasfigurazione simbolica del reale, sublimando e convertendo il nostro magma di memorie nelle fantasmagorie della narrazione immaginifica. Questa, l'impellente "risposta" dell'ottantenne maestro surrealista che, come egli stesso ha dichiarato, per lungo tempo è rimasta disattesa, in cerca di un produttore che volesse porgli la fatidica "domanda", ovvero finanziare il film. La lavorazione, infatti, ha visto la luce solo grazie ad una prima operazione di crowdfunding, lanciata su internet dallo stesso Jodorosky e che, pur avendo raccolto ben poco rispetto al necessario, per il regista ha sempre rappresentato il cuore pulsante dell'opera, anche dopo l'ingresso nel progetto della major francese Pathè (tutti i nomi dei donatori, alla fine retribuiti, compaiono nei titoli di coda).
Jodorosky realizza un originale Amarcord, che si oserebbe dire "bigger than felliniano", perché se il suo realismo visionario è inconfondibile cifra stilistica, l'ostentazione programmatica della messa in scena sostanziale, artefatta e grottesca, evidenzia la dichiarata aspirazione a voler trascendere le singole vicende in sé, i tormenti che costellano la vita famigliare, nonché la contingenza storica della dittatura militare, per aprirsi piuttosto alla più ampia riflessione esistenziale, alla dimensione trasversale ed espansa del tempo interiore, che permette all'uomo di ripensare se stesso e conviver-ci, nonostante gli errori, nonostante le incomprensioni. L'apparizione in campo dell'Io Jodoroskyano adulto, che abbraccia il sé bambino nei (loro) momenti di sconforto, ma dialoga guardando dritto in macchina, rivolgendosi direttamente allo spettatore, sprigiona un potente effetto straniante e riesce a colpire nel segno la sensibilità individuale.
Il regista, famoso per le sue pratiche di psico-magia (sorta di rituali psico-terapeutici, privi di fondamento scientifico, ma efficaci nella loro portata suggestiva performante) dona al grande pubblico intense scene di poesia, versioni sognanti di una trama umanamente comune, come convertire la paura in vitalità, le ossessioni in onestà, le debolezze in dignità.
Pensieri - amuleti da custodire e agire per ri-focalizzare la realtà alla distanza che ci consenta non solo di sopportarla, ma di goderla creativamente; di poterla percepire non come un'ardua lotta, ma appunto come una danza, risalendo all'accezione etimologica di "coro", quale partitura di movimenti significanti, complementare rifrazione di voci, catarsi scenica. Se è vero, come afferma il filosofo tedesco Odo Marquand che "… una cosa è la verità, un'altra la maniera in cui si può vivere con la verità: per la prima abbiamo, allo scopo della conoscenza, il sapere; per la seconda agli scopi della vita, le storie."
(La recensione del film "
La danza della realtà" è di
Carmen Albergo)
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