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L'ultimo degli ingiusti recensione] - «Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana […] la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l'ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E' una zona grigia, dai contorni mai definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare»
( P. Levi, "I sommersi e i salvati")
Collocandosi, ancora una volta all'incrocio tra cinema di storia e storia del cinema, l'autorevole cineasta parigino, Claude Lanzmann, quasi alla soglia dei novant'anni, consegna al mondo intero l'ulteriore tassello documentario della sua inestimabile opera di vita, votata allo scandaglio delle fonti e delle testimonianze dell'Olocausto. "L'ultimo degli ingiusti", presentato fuori concorso all'ultima ed. del Festival di Cannes, si concentra principalmente sulla rielaborazione della lunga videointervista che Lanzmann riuscì eccezionalmente a carpire a Roma nel 1975 (ai tempi della lavorazione dell'imponente "Shoah") a Benjamin Murmelstein, l'ultimo capo del Consiglio Ebraico del ghetto di Theresienstadt, il cosiddetto "ghetto modello", l'unico decano sopravvissuto alla cieca furia nazista, inviso per i suoi controversi contatti con Adolf Eichmann e bandito dalla comunità ebraica fino alla morte nel 1989, sotto l'accusa di collaborazionismo, nonostante una sentenza giudiziaria lo avesse prosciolto, dopo la prigionia, già nel dopoguerra.
Tuttavia, pur essendo Murmelstein, con la sua personale versione degli eventi, tanto amari e penosi, quanto ancora irrisolti, il dibattuto perno nodale che dà il titolo al film, il film stesso prosegue nel solco tracciato da "Shoah", nell'infondere all'excursus uno spirito d'indagine autonomo e critico, incondizionatamente innestato nel presente, per guardare al passato tragico con la lucida e rispettosa distanza necessaria per conoscere, se non proprio per comprendere, un frammento di verità sempre incompiuta, ma non per questo meno esigente. "L'ultimo degli ingiusti" si sviluppa in parte sullo stesso schema formale della frammentazione dell'intervista in stralci, che si alternano da un lato a pochi ma preziosissimi inserti di archivio (i disegni segreti dei confinati nel ghetto/campo di concentramento di Theresienstadt; il noto film di propaganda nazista, "Il Führer dona una città agli ebrei", ivi girato nel 1944 e destinato a divulgare nel mondo la diabolica menzogna dell'esistenza di "isole felici" per gli ebrei sotto il governo del Terzo Reich); dall'altro, a vedute panoramiche dei luoghi, in cui i fatti rievocati "presero vita" (in un senso che per converso, si oserebbe dire, salvo eccezioni, "diedero la morte"): Vienna, Israele, Madagascar e prioritariamente Theresienstadt, Nisko e Zarzecze, campo di sterminio in Polonia. Come in "Shoah", Il montaggio sonoro asincrono conduce, attraversando trasversalmente l'inchiesta visiva, la continuità di ritorno della narrazione, eludendo magistralmente la ridondanza descrittiva tra parole e immagini e innescando quel raro dispositivo poetico (prerogativa ancora oggi di pochi artisti del grande schermo) che lascia trabordare, espandere e penetrare i contenuti fattuali nell'astrazione paesaggistica delle pianure verdeggianti e le fitte foreste, i ruderi spettrali degli edifici abbandonati, quei "luoghi morti e luoghi di morte", "luoghi sinistri di indimenticabile bellezza", come li definisce contraddittoriamente a più riprese lo stesso Lanzmann.
La più evidente, senza essere affatto superficiale, novità introdotta dal regista è infatti la sua presenza centrale nell'inquadratura dei luoghi, in particolare nel ghetto di Theresienstadt, che è tornato appositamente a visitare nel 2012. Se in "Shoah" il suo profilo di regista si relegava, in senso letterale, ai margini del quadro, al fine di dissimularsi nell'eterodirezione delle interviste ai testimoni, ne "L'ultimo degli ingiusti" un Lanzmann invecchiato, ma sempre energico, si assume la responsabilità di farsi portavoce dei documenti che declama, quasi interrogando le mura e le macerie (i forni crematori, il muro delle fucilazioni, la forca delle impiccagioni) nel loro eterno retaggio iconico. Eppure, anche in questo caso, Lanzamann riesce a garantire, nell'economia della fruizione spettatoriale, l'indipendenza del punto di vista onnisciente, l'autenticità del viaggio di inchiesta nella soggettiva impersonale della memoria – motrice. E quindi il treno in corsa, nella commistione di traslazione retorica e nel suo macabro simbolismo della deportazione di massa, che chiudeva "Shoah" e che introduce in continuità "L'ultimo degli ingiusti", per aprire l'enigmatica parentesi su Benjamin Murmelstein. L'intento dichiarato del regista è quello di gettare luce sulla figura del decano, strategicamente monopolizzata dal nazismo e sulla personalità dell'uomo Murmelstein, che tale ruolo aveva rivestito così impeccabilmente. Lanzamann offre a Murmelstein la possibilità di confessarsi al mondo, di trovare nel conflitto delle memorie uno spazio franco per la sua versione della Storia a cui prese parte, cercando di porre in risalto più che supposizioni di colpe, almeno la credibilità delle buone intenzioni che orientarono il suo operato concreto e inconfutabile, ovvero l'aver salvato 121.000 ebrei, raggirando le regole dell'emigrazione forzata e aver impedito quanto più possibile la liquidazione del ghetto di Theresienstadt; soprattutto non esser mai fuggito pur avendone la possibilità, nella convinzione di avere il peculiare dovere e il potere di (re)agire. Ed è proprio al limite in cui la scelta di un dovere martirologico (non necessariamente santificante) sfuma e si rende confondibile con la suggestione del potere egocentrico, la "zona grigia" appunto, o come meglio esplica Levi "la fascia delle mezze coscienze", che si colloca l'ambiguità di quest'uomo arguto e senz'altro coraggioso, che minacciato dalle contingenze, tentò di sfidare e sovvertire l'egemonia nazista nel suo radicale campo burocratico. Mentre contesta vigorosamente le speculazioni di Hannah Arendt su Eichmann (che lui ebbe modo di guardare da vicino nella sua efferatezza, senza paradossalmente poterlo mai accusare, perchè considerato non attendibile nello storico processo del 1961) Benjamin Murmelstein parla eufemisticamente di sé, agganciandosi a più riprese ad un sapere comune e condiviso per farsi più facilmente comprendere, traslando però il giudizio, esteriorizzandolo e oggettivandolo in miti e metafore: egli è stato nelle mani dei gerarchi nazisti "una marionetta che doveva imparare a muovere da solo i propri fili"; "la fanciulla delle 'Mille e una notte' risparmiata perché raccontasse una fiaba", quella del ghetto modello; "un Sancho Panza necessariamente realista" per riuscire a parare i colpi e salvare il salvabile dalla follia; ed infine, "un dinosauro su una autostrada", quale perturbante per la comunità ebraica. In ciò, volendo mutuare proprio il più profondo portato filosofico Arendtiano, ovvero l'inumanità radicale e banale, che sorge dall'abdicazione da quella esclusiva forma umana del pensiero autogiudicantesi, che si chiede "fino a che punto sarebbe capace di vivere in pace con se stesso dopo aver commesso determinate azioni", Benjamin Murmelstein appare plausibilmente come un uomo che nel suo combattuto dialogo introspettivo è riuscito ad arginare le derive del suo agire, se non in alibi, in solidi compromessi, credibili senza dubbio alle orecchie innegabilmente esperte di Lanzmann, che sceglie di chiudere invitando l'interlocutore a smettere l'intervista e a proseguire la conversazione da nuovi amici, allontanandosi dall'obiettivo ed eludendo la registrazione acustica.
(La recensione del film "
L'ultimo degli ingiusti" è di
Carmen Albergo)
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