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L'ultima ruota del carro recensione] - Dopo aver concluso la trilogia manualistica sull'amore, Giovanni Veronesi torna sul grande schermo, combinando essenzialmente due motivi fondamentali: un abile interprete principale, Elio Germano, da un lato, la rivisitazione comico-sentimentale dell'ultimo cinquantennio italiano dall'altro. Il progetto ambizioso di suscitare nello spettatore il riconoscimento empatico col vissuto comune dei personaggi, uomini e donne, che incarnano di volta in volta, i genitori, i coetanei e la progenie dell' italiano medio che, senza infamia e senza lode, è passato indenne dagli anni di piombo alla crisi economica attuale, si risolve ed esaurisce nella superficiale formula aneddotica della successione stereotipata degli eventi di cronaca sociopolitica, in cui calar quella strettamente familiare, per di più aggravata dal nauseante abuso diegetico dei consueti filmati di repertorio televisivo, ritrasmessi ridondantemente dallo stesso piccolo schermo: nuovo album di famiglia condiviso tra le mura domestiche, ma a reti unificate. Così, se il protagonista, Ernesto Marchetti (personaggio di finzione ispirato alla vita di un reale collaboratore sul set di Veronesi) manifesta a tratti il suo valore di testimone diretto, pur se sempre marginale, di vicende topiche e indelebili del passato recente (il ritrovamento del cadavere di Moro; gli arresti clamorosi di tangentopoli), per il resto tele-assiste alla enfatizzazione mediale di eventi collettivi e simbolicamente aggreganti, quali i mitici mondiali di calcio del 1982, la tirannia pubblicitaria del primo avvento del berlusconismo, sino alla morbosa degenerazione della stessa tv di Stato, icasticamente resa dal plastico della delittuosa villetta di Cogne a "Porta a porta". La storia collettiva filtrata dal mass media più pervasivo per antonomasia è dunque lo sfondo panoramico, l'orizzonte paradossalmente lontano, su cui si dipanano in scala di rilevanza le vicende personali di Ernesto e tramite lui della sua famiglia. Vite che scorrono, pur restando immobili nelle posizioni di partenza nel rigido gioco di ruoli, che atavicamente contraddistingue il nostro paese: l'inestirpabile patriarcato e maschilismo, dietro cui, sotto sotto, lasciar trapelare la buona fede e l'impulsività dei sentimenti, la diabolicità amicale che lega dall'infanzia l'umile con l'egocentrico, l'onesto con il furbo, il fedele con l'opportunista, si ché il giudizio incondizionato, l'autoconsapevolezza e il concorso di corresponsabilità, non interverranno mai a marcare drasticamente le differenze, piuttosto al contrario, si dissolveranno bonariamente nella comprensione obbligata e nel disinteresse a scandagliare altre motivazioni, che non sia la convenienza estemporanea, quell'abilità (arte?) di arrangiarsi sfruttando i venti favorevoli del momento, cancellando le rotte passate, privi di lungimiranza nell'avvenire. Ernesto e sua moglie Angelina (Alessandra Mastronardi), il miglior amico Giacinto (Ricky Memphis) e i suoi compari di malaffare (su tutti Sergio Rubini) restituiscono l'idea di individui che vengono vissuti dal loro tempo e traghettati nel futuro, senza aver mai pensato al futuro stesso, stretti in un eterno presente di stenti e slanci a breve scadenza. L'indole di Ernesto a voler mostrarsi autonomo e controcorrente nelle decisioni, pur restando sempre nell'orbita di protettori di varia natura (dalle raccomandazioni imposte all'amicizia impari con il Maestro artista) è definita sin da subito come "vizio di voler essere onesto" (che nulla ha però dello spessore provocatoriamente antieroico de "L'intrepido" di Gianni Amelio) una sorta di ostinazione autolesionista, illogica e ridicola agli occhi altrui. Su questo leitmotive, Veronesi insinua il sentimentalismo tragicomico fantozziano, dichiaratamente esplicitato per bocca di Ernesto che, come la maggior parte del grande pubblico degli anni '70, segue la saga della maschera caricaturale del Ragionier Ugo. Contestualmente ai raggiri e alle arroganze subite (la malasanità di cui Ernesto è vittima) badando bene al rapporto tra Ernesto e Angelina, traspare proprio la falsariga di quella grottesca dinamica coniugale che contraddistingue Ugo e la consorte Pina, quel misto di rivalsa su l'unica persona socialmente subalterna (la moglie, ultimissima ruota del carro) e compassione remissiva, per cui Angela "si fida" ciecamente di Ernesto, come Pina "stima" senza riserve Ugo. Magistrale in questo senso la sequenza conclusiva della perdita irreparabile del fortunato biglietto gratta e vinci. La sfuriata misogina con cui Ernesto accusa e umilia Angela e la rincorsa pietosa della sorte milionaria, illusione di tutta una vita che volge al termine, sfocia ridicolmente in una discarica dove, forse per la prima volta, Ernesto sdraiato su una montagna di rifiuti, stremato dalla fatica e soprattutto dall'età, prende coscienza del suo essere stato sempre eterodiretto da fantomatici burattinai su sceneggiature pre-scritte: l'ostentazione del benessere economico e del successo imprenditoriale, l'omertà dell'illegalità. È l'eco lontana, certo visivamente rievocativa, ma sbrigativa e accomodante, di una anacronistica, eppure intramontabile critica pasoliniana (l'episodio "Cosa sono le nuvole" del film collettivo "Capriccio all'italiana" del '67) di quella moltitudine di Italiani che, entusiasti e sprovveduti, si lasciano travolgere e smarrire dalla spettacolarizzata società dei facili "consumi" e delle chimere politicizzate.
(La recensione del film "
L'ultima ruota del carro" è di
Carmen Albergo)
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