di E. Lorenzini
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Il Superstite recensione] - Raccontare l'emarginazione può essere il viatico per il successo: tanto buon cinema si costruisce attorno ad una storia di autismo sociale, di mancata connessione tra il singolo e la collettività. Raccontare l'emarginazione, però, è anche una pericolosa tentazione per un ego registico troppo gonfio o per una mano fotografica pedante: nel caso del Superstite, primo lungometraggio dell'apprezzato cortista Paul Wright, il dramma di un giovane outsider diventa, ahimè, il dramma di un film che si perde nella propria ansia di originalità. La vicenda, a metà tra l'intimistico, il giallo e il surreale, è quella di Aaron, che in un avamposto scozzese regolato da superstizioni e riti ancestrali finisce sotto la mannaia dell'odio pubblico perchè unico sopravvisuto a un misterioso incidente costato la vita, tra gli altri, all'amato fratello Michael. Sfidando il sentire comune, che banalmente identifica nel miracolato l'agente di un fato maligno, Aaron torna in mare inseguendo una sua personale teoria dei fatti, in cui si mescolano dolore, follia e fede nelle leggende popolari. Sta proprio qui, nell'intersezione tra la psiche del protagonista e la vicenda filtrata dai preconcetti della sua comunità, il nodo di un mistero che si dipana lentamente e in modo confuso, tra continui flashback e derive sempre più estreme verso l'allucinazione. Lo spettatore, trascinato in un limbo nebbioso e scarno, proiezione scenografica della mente di Aaron, arranca con lui tra ricordi e travisamenti, faticando a trovare una chiave di lettura non solo della trama ma anche dello stile del film. Pecca principale del lavoro di Wright, infatti, è l'incertezza stilistica mista a presunzione: la convinzione, cioè, che la rarefazione delle facoltà mentali si autodescriva in un affastellarsi fumogeno di flash fotografici, senza bisogno di una mano super partes che ne delinei i contorni e la sostanza, dotandoli di carattere. Il regista investe il suo attore principale, bravo nel dare vita alle espressioni alienate e sofferte di un personaggio realmente complesso, di un compito assoluto, che avrebbe potuto godere del supporto di una fotografia più ragionata e di attori comprimari che qui si limitano a lampeggiare come presenze ectoplasmiche, invece di aggiungere corpo e psicologia allo script. C'è da dire, a difesa del film, che il senso di angoscia e di straniamento raggiunge lo stomaco del pubblico. Se l'obiettivo era creare una generica soluzione di continuità con la concretezza della vita contemporanea, in cui miti e feticci soccombono al senso pratico, Paul Wright e la sua squadra possono dirsi abbastanza soddisfatti. Se invece, come è plausibile credere, si voleva indagare il problema dell'isolamento coatto di un singolo per mano di una società prevenuta e codarda, le intenzioni rimangono congelate nella teoria.
(La recensione del film "
Il Superstite" è di
Elisa Lorenzini)
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