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Il Primo Re recensione] - Per essere credibili bisogna essere rigorosi. Il cinema non è un gioco quantomeno se lo si vuole fare bene. E' quello che tanto cinema nostrano finge di non capire, rifugiandosi nell'alibi della finzione scenica, della mancanza di mezzi, del fatto che l'idea sia sufficiente a se stessa, di chi vorrebbe ridurre il cinema a metonimia. Per cui al posto di una sparatoria basta un tizio che agita un mitra per aria, invece di un esplosione un boato fuori campo, invece di un inseguimento una macchina che sgomma in un parcheggio deserto. Quanti ne abbiamo visti di film così, che sembrano girati in parrocchia. Invece il cinema non si deve accontentare, il cinema deve essere sacrificio, abnegazione, un' ossessione di perfezionismo disposta a tutto pur di ottenere una rappresentazione che sia la più realistica possibile. Sospensione dell'incredulità si chiama. Può sembrare sterile formalismo ma senza quello il castello semplicemente non sta in piedi. Come diceva Francois Truffaut, la lavorazione di un film somiglia al percorso di una diligenza nel Far West: all'inizio uno spera di fare un bel viaggio, poi comincia a domandarsi se arriverà a destinazione. Ecco, quello che un regista non dovrebbe mai fare è perdere di vista l'obiettivo che si è preposto, tirare i remi in barca, scendere a compromessi perché "troppo difficile", "troppo faticoso". Errore che non ha commesso Matteo Rovere che ne Il primo re ha mantenuto la barra dritta, sottoponendo se stesso e l'intera troupe ad un tour de force fisico e mentale affinché qualsiasi comodità o più agile scorciatoia fosse immolata sull'altare del realismo. A metà strada tra Apocalypto e Revenant, Rovere ha capito subito che per narrare il mito fondativo della città di Roma non esistevano alternative, se non si voleva ottenere una versione alla vaccinara del serial tv Spartacus. Ha capito che bisognava affondare nel fango, sporcarsi di guano, vestirsi di stracci, soffrire la fame e il freddo per davvero. Per cui niente acconciature hipster alla Viking, niente treccine, code, capelli scalati con le mesches, folte barbe sfumate; niente tuniche corte e sfiancate che lasciano intravedere i quadricipiti e i pettorali lucenti di unto o i sandali ai piedi coi lacci fighetti stretti fino al polpaccio. Romolo e Remo non hanno nulla di fascinoso o sexy nonostante abbiano i volti di Alessio Lapice e Alessandro Borghi. Ed è in questa esigenza di realismo che va inserita la scelta dell'uso del protolatino quale lingua parlata, unica scelta possibile, lontana anni luce dal semplice vezzo intellettualoide. Così come per la forma, Rovere risulta rigoroso anche nei contenuti, nel consultare le fonti, nel rifuggire da tutto quello che del mito è diventato nei secoli favola e folklore (la lupa, il solco tracciato per terra) per impostare un racconto solido, epico, crudele e avvincente. Unica pecca forse una calibrazione non perfetta dei tempi, sontuosa, contemplativa e misteriosa la prima parte, nervosa, repentina, in diversi passaggi cruciali, quasi frettolosa, la seconda. Resta comunque un film di cui andar fieri, che invita ad un sano sentimento di amor patrio, soprattutto in vista di una possibile diffusione internazionale della pellicola: è un bene che il primato della grandezza di Roma sia celebrata dai romani e che siano i romani a insegnarla al mondo, ora che sappiamo di poterlo fare non solo a parole ma anche nei fatti. Il primo re non sfigura difronte al pluriosannato Revenant così come Alessandro Borghi non avrebbe nulla da temere dal confronto con Leonardo di Caprio. Su Matteo Rovere, dopo Veloce come il vento, possiamo ormai dire, con cognizione di causa, che è nato un autore.
(La recensione del film "
Il Primo Re" è di
Mirko Nottoli)
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